Ci si chiede come mai la presidenza
Obama sia fallimentare sul fronte internazionale, anche se non scopertamente. Non
ci se lo chiede in realtà, Obama ha sempre molto credito, ma né in Europa né
altrove nessuno fa affidamento su di lui, per nessuna ipotesi di soluzione: in
Israele, in Siria, in Libia, in Ucraina, con la Russia, contro il terrorismo
islamico, oltre che in Afghanistan e in Iraq - ma tutta la sua lunga presidenza è stata del non fare, eccetto che la riforma sanitaria, peraltro poco incisiva: grandi banche e grandi gruppi, Guantànamo, spionaggio degli alleati con la scusa della guerra al terrorismo, tutto ha lasciato come Bush jr. lo aveva apprestato, alle guerre di Bush aggiungendo quelle di Libia e Siria, e la quasi guerra in Egitto e Tunisia.
La critica non c’è perché il
presidente americano beneficia comunque di un’aura, una sorta di sacralità. È un
“dover essere” su tutti i fronti, anche su quelli che non padroneggia, o muove
da incapace. Un simulacro.
È in questo assetto che
sembra insieme eccezionale e remoto il tentativo del segretario di Stato Kerry,
politico all’antica, di riportare la diplomazia americana sulla razionalità. In
Siria, per esempio, e in Libia. Cercando alleanze utili, se non fraterne,
promuovendo soluzioni. A partire dal desueto armistizio. Un armamentario bellico-diplomatico che proprio gli Usa hanno da tempo obliterato, con la guerra totale (aerea) e la resa incondizionata.
Un governo, e più un governo
con responsabilità mondiale come quello Usa, deve farsi interlocutori, sia pure
ostili, le altre potenze e i governi, più o meno legittimi. Non servizi
segreti, movimenti di piazza, gruppuscoli che magari diventano l’Is, oppure
sono bande di estorsori (Quirico et al.). Dovrebbe: è per questo che Kerry è simpatico
ma non molti gli danno credito.
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