“Uno
degli interpreti più puri della Controriforma”. Ma “ogni sua opera è un saggio
di ambiguità “- di molteplicità espressiva. Forse è qui il “segreto” che
D’Onofrio pretende del suo Caravaggio,. Che al contrario è limpido, anche se
per più aspetti innovativo. Su una iniziale galleria dei personaggi che forma
un contesto già affascinante. Di botteghe e commerci d’arte, collezionisti
ricchi e ladri, e mecenati generosi che sono anche inflessibili censori. Specie
i due grandi papi, Clemente VIII Aldobrandini, e Paolo V Borghese, governanti
rigidi, di profonda moralità, e accorti committenti, ma duri punitori, il primo
di Giordano Bruno e Beatrice Cenci, il secondo di Caravaggio. Roma era allora,
per il fiammingo Karel van Mander, “la capitale delle scuole di pittura”.
Il
titolo è civetta, il volume è onesto fin nell’impaginazione, con accesso
semplice alle figure di rimando. Lo storico dell’arte, ora direttore del Macro
a Roma, fa divulgazione senza gratuità. E senza le alzate d’ingegno della
“follia critica” che si è scatenata sul personaggio e la sua opera da alcuni
decenni. Notizie e documenti sa anche trattare con la tecnica della suspense.
Il personaggio è presto detto: di “una determinazione fuori del comune” sin da
ragazzo, in cerca di gloria. La fama sulfurea è tutta nella tarda romanzata
biografia, di oltre un secolo dopo la morte, di un prete messinese, Francesco
Susinno. Non sbagliata, era aggressivo e amava le cattive compagnie, il
maledettismo c’entra tutto, ma univoca. Caravaggio resta un solitario, di cui
non tutto si può sapere. Specie della sua arte pittorica. Essendo uno che non va a scuola e non fa
scuola. Cioè la farà, ma per la potenza della sua opera: “Caravaggio non rivela
a nessun i segreti della sua tecnica, che ancora oggi fatichiamo a
comprendere”.
È a Roma giovanissimo. È
sicuramente pittore a bottega, di “teste”, e di caraffe d’acqua trasparenti. Ma
con chi e per quanto tempo non si sa, eccetto che per il cavalier d’Arpino,
presso il quale ha lasciato, o ha dovuto lasciare, la prima opera attribuita,
il “Bacchino malato” – questa di rifiutare o sottostimare le opere altrui per
poi rivendersele a miglior prezzo ai collezionisti privati sarà pratica
corrente per tutta l’opera di Caravaggio (la “Morte della Vergine”, rifiutata all’esposizione
in chiesa come “bagascia senza decoro”, fu rivenduta al duca di Mantova con l’expertise
di Rubens). Fa una vita apparentemente dissipata, benché abbia uno zio alla
corte pontificia, tra bevute, prostitute, che usa spesso come modelle di
Maddalene e Madonne, risse, aggressioni, sfratti, fermi e processi, un provocatore e un violento. Ha
presto estimatori e committenti importanti: Costanza Sforza Colonna, la figlia
di Marcantonio, dei cui figli la zia di Caravaggio è stata nutrice, quando
abitava novella sposa a Milano, Francesco Maria Bourbon Del Monte, il
ricchissimo e letteratissimo marchese Vincenzo Giustiniani, i papi regnanti, e
ha dalla sua presto i giovani, quelli che costituiranno la folta falange dei
caravaggeschi, ma ha contro, perfidi, tutti i critici o intenditori d’arte, e i
colleghi di maggior prestigio.
Caravaggio ha deciso presto, già ai dodici anni, che sarà un
grande pittore. La fama che si crea è all’opposto, di uno scapestrato: poco
applicato, litigioso, uno che gli sbirri devono speso fermare e più volte
trattengono in carcere. Ma è uno che si controlla molto, nell’apparente
dissolutezza. Il “Bacchino”, la sua prima opera, “è ritratto dal vero, ma allo
stesso tempo è la copia del riflesso di uno specchio”, un artificio che si
ritroverà in molti sui dipinti. Non dipinge d’istinto, elabora da subito una
tecnica complessa, che gli consentirà negli ultimi anni la pittura “a risparmio”,
delle figure e le ambientazioni, che con pochi tratti sbalza su una superficie
scura. Van Mander lo ricorda poco attivo: “Quando ha lavorato un paio di
settimane, se ne va a spasso per un mese o due”. Ma è un modo per reinventarsi:
cura la disposizione scenica, incluse le “storie” personalissime dei suoi
soggetti (non fa multipli). Molte opere di grande impatto ha lasciato per poco
più di vent’anni di attività, e tra mille problemi, da alimentari a caratteriali.
È un selvaggio, ma cura anche le relazioni. Grazie soprattutto
alla protezione del suo primo acquirente, il cardinale Bourbon del Monte,
rappresentante dei Medici a Roma. Uomo dotto, oltre che ricco, formato a
Urbino, dai Della Rovere, eredi della civiltà di corte di Federico di
Montefeltro, sperimentatore (alchimista), protettore degli innovatori: artisti,
scienziati, pensatori, scrittori, e musico non dilettante - lo stesso
Caravaggio si dilettava di musica. Uno dei tanti medaglioni di questo
“Caravaggio segreto” a corona del mistero-non-mistero dell’artista.
Il segreto sono i dipinti a cui Caravaggio via via pone mano.
Analizzati da D’Onofrio ognuno in dettaglio: una creazione continua, inventiva,
innovativa. Un artista sempre all’erta, allo specchio. Ama le citazioni
illustri, spesso alla lettera, specie di Leonardo: “Il maestro toscano è un
riferimento costante per Caravaggio, al pari e forse anche più del Buonarroti”.
È ambiguo? È inventivo: “L’artista crede più nel potere di persuasione del
dubbio che in quello della verità”. È riflessivo, molto, ma in forma
istintuale. Rifugge dall’affresco, tecnica progettuale rigida, lui dipinge coi
colori, senza nemmeno disegno preliminare. Ma progettuale in realtà lo è,
secondo un filo narrativo: i suoi quadri sono storie, anche quelli sacri, di
carattere e soggetto rituale. Fino a disporre – a san Luigi dei Francesi e
altrove - la scenografie delle sue
pitture a seconda del punto di osservazione dei fruitori.
Costantino
D’Orazio, Caravaggio segreto,
Sperling & Kupfer, pp. Pp. 186, ill., € 9,90
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