“È furba,
sleale, perfino ipocrita. Ma è mia madre. E questa è l’ultima volta che la vedo…”.
È la madre propria della scrittrice. Che l’ha abbandonata a quattro anni, a Berlino nel
1941, col fratellino di pochi mesi, mentre il padre era al fronte. Una madre
mai rivista, se non fuggevolmente trent’anni dopo, nel 1971, e ora dopo altri
27 anni, nel 1998, in quello che sarà l’incontro finale, in una casa di riposo,
tra i tentacoli dell’alzheimer. Due ore di colloquio incerto, che è piuttosto un vaneggiare, ma un racconto
mozzafiato.
Nel 1971
la madre si fa rifiutare con l’offerta di monili e oggetti d’oro che non
possono non suscitare memorie orrende. Qui è mezzo smemorata, ma non abbastanza
da non inalberare l’orgoglio di essere stata quello che è stata, di aver fatto
quello che ha fatto. Non ingenua, mai leale, che dalla figlia anzi vuole solo
estrarre, anche alla fine, un po’ di consolazione, continuando ad abusarne. Ripetutamente,
la figlia non può che trovarla, anche in questo incontro, a sessant’anni, con
una donna che non rivedrà più, invariabilmente “bugiarda, opportunista,
fanatica, infida”, “scaltra, perfida”, “crudele, insensibile”. Il racconto è di
una che gioca a fare la madre tra le pause della smemoratezza. Un gorgo morale.
Ci sono
tante persone cattive al mondo, e alcune sono madri. Ma non si raccontano. Ci
sono molti padri di cui è possibile leggere indegni: violenti, con le mogli, le
figlie, anche con i figli, autoritari, incapaci, sciocchi. Le madri indegne no,
non se ne ricordano. Questa è particolare, anche se non rara, perché ha
abbandonato tutti per fare l’aguzzina, Waffen-SS orgogliosa, a Ravensbrück e
Auschwitz-Birkenau, campi di sterminio. Due fra i campi peggiori. Ravensbrück, lager femminile, non era propriamente di sterminio, ma la madre di Helga vi era impegnata con le cavie umane degli esperimenti
disumani sui sulfamidici e la sterilizzazione: si sceglievano le donne giovani
e ancora in forze, che venivano infettate o mutilate a vivo, e poi lasciate morire tra i
dolori. Una delle guardie “migliori, più forti ed efficienti” nei suoi dossier giudiziari,
entusiasta sempre, anche qui, da ultimo, benché prossima alla fine.
Un
racconto febbricitante, di tensione insopportabile. Emozionante: la scoperta
della madre aguzzina è tarda, del 1971, “allorché ti rividi dopo trent’anni”,
ricorda la scrittrice alla madre, “dopo l’abbandono nel 1941, e rabbrividisco
al ricordo dello sgomento che provai scoprendo che eri stata un membro delle SS.
E non eri pentita, anzi. Ancora ti compiacevi”. La stoccata finale, “è semplicemente
volgare”, è definitiva, ma non liberatoria. Come per le vittime dei lager, quell’esperienza resta non
cicatrizzata nella vittima figlia.
Schneider
rasenta il capolavoro, non fosse per alcune pagine documentarie sui lager. Un
tributo dovuto alla memoria, che però non fa contesto ma lo immemorializza nella
storia - lo diluisce nel paradigma della “madre SS”. Un contesto fuorviante,
nell’economia del racconto, da cui però si estraggono atrocità ancora trascurate. Di
Höss, il comandante di Auschwitz, l’agghiacciante si può registrare in esergo,
estrapolato dal suo processo e dal suo libro di memorie: “Il sentimento
dell’odio mi è sempre stato estraneo”. O dello sterminio polacco: “I nazisti
consideravano i polacchi una razza inferiore, tanto da vietarne la sepoltura in
terra consacrata. Temevano però la scomoda intelligencija locale, e avevano
deciso di sterminarla”.
La scrittrice
stessa è vittima di una certa Germania, seppure non del pregiudizio razziale: la
tragedia nazionale e storica è anche sua personale. Ottima scrittrice in italiano,
Helga Schneider è nata in Polonia da genitori austriaci. Il racconto è anche di
una persona, una scrittrice, che ha perduto per questo la madrelingua (l’italiano
ha cominciato a praticarlo dai tardi vent’anni), evento altrimenti impossibile,
tale è la forza del rifiuto, della sopravvivenza, della cancellazione del male.
E tuttavia non può strapparsi dalle radici materne, fisiologiche, malgrado la
sofferenza, la propria sofferenza – dalla colpa. Sembra facile rifiutare una madre
indegna, e invece non si può.
La madre
catalizza altri rigurgiti molesti. Dei berlinesi in stracci affamati tra le
macerie che si rifanno sugli Alleati accusandoli di sputare sulla Germania solo
perché ha perso la guerra. Un ricordo vero anche storicamente: è la sindrome
Heidegger, fino all’intervista postuma allo “Spiegel”. O di se stessa bambina,
di sei o sette anni, alla vigilia della Caduta, febbraio o marzo 1945, che partecipa invasata al linciaggio di una povera coppia
di ebrei, spinti fuori del rifugio dalla fame – salvati dalle guardie SS, per
essere avviati allo sterminio....
Il
racconto è anche di un’infanzia e un’adolescenza segnate dai rifiuti e gli
abbandoni, oltre che dai bombardamenti e dalla fame: una vita nei rifugi, e poi
tra collegi e correzionali. Col contrappunto grottesco della visita a Goebbels,
per i buoni uffici della sorella della matrigna, segretaria del supergerarca. E al
bunker di Hitler per la campagna di promozione del führer “umano e solidale”,
che offre ai bambini “casa, cibo e conforto” – all’inizio di dicembre del 1944,
poco prima della liquidazione in massa degli intellettuali antifascisti
deportati dai paesi occupati, l’operazione Notte e Nebbia. Sullo sfondo di
una pedagogia materna – antiquata? femminile? - tirannica e gelida, senza mai un segno di
affetto per i figli. Compresa una matrigna che rifiuta la bambina di primo
letto e la butta in casa di correzione. Mentre si appropria del bambino, lo fa passare per suo - squallida vicenda che annichilerà il ragazzo.
Inedito,
duro, tragico il racconto quando è della madre indegna, senza cura materna e
nemmeno umana, un essere di ghiaccio come i suoi occhi, di un rapporto quindi impossibile.
Nonché dell’immaterialità, anche se criminale, distruttiva, del fanatismo. Al quale
cioè non c’è rimedio. La madre indegna è in Irène Némirovsky, ma con cautela.
Helga Schneider ne ha avuto una che si autorappresenta da sola, ed è già troppo
crudele, non c’è bisogno di aggiungere.
Helga
Schneider, Lasciami andare, madre,
Adelphi, pp. 132 € 9
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