“La
naturalezza elementare con cui da ogni cittadino e da ogni partito viene pretesa
l’indipendenza del giudice” è una meraviglia, e uno dei segni della
sorprendente autonomia dello Stato – di quella che il più tardo Schmitt
teorizzerà come “autonomia del politico”, una divinizzazione, la politica assurgendo
a teologia. Un miracolo, si direbbe, e per questo raro – in Italia per esempio.
Malgrado la moltiplicazione dei sedicenti Stati. E il contrabbando della
dissoluzione dello Stato, nell’ideologia del privato e degli interessi, sotto
la copertura di un ottimismo hegeliano sulla natura e la forza dell’istituzione
– leggere oggi Hegel sulla forza e intangibilità della Funzione Pubblica fa
ridere, ma si fa finta che sia sempre come lui ipostatizzava, sull’esempio
(reale? immaginario?) dell’integerrimo superiore burocrate prussiano.
A Hegel
Schmitt all’esordio si rifà. Non dichiaratamente. Anche perché ha una riserva
importante, che è la chiave dei tre saggi che qui raccoglie: lo Stato è l’idea
dello Stato, non un fatto storico (potenza), né contrattuale o utilitaristico –
e nemmeno quindi hegelianamente “etico”. Fa il diritto e ne vive: è un’altra
realtà. È un principio o idea che si impone a prescindere. Religiosa?
Metafsica? Non si dice ma si presume. La diversità (specificità) di Schmitt,
che Carlo Galli ribadisce presentando la raccolta, nasce dal suo radicamento
nella filosofia del diritto e la prassi cattoliche, per esempio dei concordati
– un radicamento-percorso peculiare ma non isolato, neanche in terra infidelium: la tenuta del pensiero
politico cattolico sfiorerà anche Hannah Arendt: “Né potere di fatto”,
sintetizza Galli, “né frutto di empirica utilità o di parziali interessi, lo
Stato è forma, figura concreta dell’Idea: lo Stato rende presente (rappresenta,
appunto) l’Idea assente e sempre trascendente”.
Un testo
legnoso. Ma non senza gli umori mordaci, e nello scherzo veri, che renderanno
quasi simpatico il quasi nazista Schmitt. Dei contrattualisti: “L’accordo
universale degli uomini in importanti valutazioni giuridiche sembra avere lo
stesso significato dell’uniformità con cui per esempio oggi in Germania molte
centinaia di migliaia di persone sentono il bisogno di bere caffè dopopranzo”.
O degli utilitaristi: “Potrebbe essere accaduto che singoli uomini intelligenti
siano stati in grado di imporre la propria visione delle cose agli altri – più
o meno come Federico il Grande convinse i contadini prussiani a coltivare
patate”. Con coda velenosa: “E tramite la loro effettiva superiorità” abbiano indotto
i più a “sottomettere l’egoismo non illuminato a un egoismo illuminato”.
L’empiria, del diritto “distillato” dagli interessi, è quella “del barone di
Münchhausen, che si tira fuori da solo dalle sabbie mobili tirandosi per i
capelli”. Secco sul protestantesimo: ”Lo Stato e il diritto si consacrano a
scopi di polizia, com’è stato espresso in modo particolarmente chiaro da Lutero
e Zwingli”. Una concezione non buona nemmeno per la moralità spicciola: se “il
diritto cura le condizioni esterne della moralità interna”, ciò viene a dire
che “nell’epoca della sicurezza, nel XX secolo, il valore morale di un uomo
veramente morale non è eo ipso
superiore a quello dell’epoca dei Condottieri o delle migrazioni dei popoli”.
Agli
stessi umori è da ascrivere la p. 85, in difesa dei forti uomini della storia,
Cesare, Bismarck. Nei quali s’incarna un processo storico, ma la cui grandezza
non si può ridurre, come Hegel fa, alla noia o alla debolezza del vuoto essere,
o addirittura alla “fornicazione con se stessi”: “L’identificazione del
compito, la dedizione smisurata alla causa, il dedicarsi al compito, l’orgoglio
di essere servitori dello Stato e così di un compito, l’oblio di sé con cui
furono projectissimi ad rem”, sono di
altra natura” – nella stessa vena mordace si potrebbero dire della natura dell’ambizione,
ma Schmitt ha un concetto alto della politica e del politico.
Ne ha
anche per i neo liberali dello “Stato minimo”, che verranno sessant-settant’anni
dopo – ma è un ritorno, ciclico: “Parlare di una libertà dell’individuo, in cui
consisterebbe il limite dello Stato, è ambiguo.
Lo Stato non interviene nella sfera dell’individuo dall’esterno, come un deus ex machina“. L’idea del possesso,
dell’area riservata, è estranea al diritto: Nel diritto l’autonomia ha un
significato diverso da quello che ha nell’etica, dove l’individuo è visto come
suo possessore” Nel diritto, e nel suo “mediatore”, lo Stato, “il valore si
misura soltanto secondo le norme del diritto. Non in base a elementi endogeni al
singolo” – nessun individuo ha autonomia nello Stato”.
Sottigliezze
Il senso
fila dritto, tra le sottigliezze: “Il diritto è pensiero astratto, che non può
essere dedotto dai fatti né può agire sui fatti”. Se non a mezzo di “una
realtà”, orientata “alla «realizzazione»” del diritto. Questa “realtà” è lo Stato, “soggetto di
diritto nel senso eminente del termine”. Ma come, per quale “diritto”?
Non ci si
pensa, è parte dell’ordinario, ma lo Stato è la cosa forse più straordinaria,
questa forma di autogoverno più estrema di ogni altra e quasi impensabile. Che
ha condotto i molti, nel tentativo di penetrarla, a legarla alla potenza. A un potere quasi
astratto, che si impone col monopolio della violenza. Schmitt, in questa che è la
sua seconda o terza opera, nel 1914, a 26 anni, è già di diverso avviso. Lo
Stato, “concetto estremamente ambiguo,… nel migliore dei casi giunge a un’universalità
giustamente definita da Kant misera, secundum
principia generalia, non universalia”. Per via indiretta - il territorio,
la popolazione, la lingua, la storia - non si ottiene di più. E “uno «Stato
futuro»”, idealizzato, ambito, “se si realizza, resta uno Stato?” La tendenza c’è,
a diventare “cattolici”, vedi la Rivoluzione Francese, o la Santa Alleanza sul
principio di “legittimità”. Ma la Chiesa, nei sui concordati e nel diritto
canonico, ristabilisce le proporzioni: la Chiesa si presenta “cattolica”, lo
Stato è una serie di Stati. “Lo Stato deriva la propria dignità da una
conformità alla legge che non deriva da esso, ma di fronte alla quale la sua
autorità rimane invece derivata”. Per una ragione che sembra una tautologia:”Il
diritto non va definito a partire dallo Stato, ma lo Stato a partire dal
diritto”. Ma non lo è: “Lo Stato non è creatore del diritto, ma il diritto è
creatore dello Stato: il diritto precede lo Stato”. L’idea del giusto, un insieme di valori – “un
potere supremo” che è “un’unità ottenuta esclusivamente tramite criteri valutativi”. Un altro “rovesciamento”,
fra i tanti della filosofia tedesca: “Non è lo Stato una costruzione che gli
uomini si sono fatti ma, al contrario, è lo Stato a fare di ogni uomo una
costruzione”.
Perché un
testo datato, di un secolo abbondante, e nell’insieme più allusivo che
assertivo? Buttato lì peraltro, poco editato, malgrado la cura di Carlo Galli –
chi è Sohm? e il trattato di Sohm – che non è un armistizio o una pace ma un
libro, “Naturrecht”? e quale Harnack?, etc. Perché non c’è altro Stato, nella
dissoluzione che l’ideologia del libero mercato impone. Non nella trattatistica,
e sempre meno di fatto. Per esempio in Italia – non in Germania, malgrado i
filosofemi, dove corrotti e corruttori vengono sanzionati a migliaia ogni anno,
non a diecine, o anche in Russia, o allora dove il mercato si fa Stato, come
negli Usa.
Carl
Schmitt, Il valore dello Stato e il
significato dell’individuo, Il Mulino, pp. 104 € 12
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