Amicizia – È – è più profondamente – muta. Sentita più
che detta. È una forma di compartecipazione. Ma anche un forma di solitudine,
senza il tomento della solitudine: il conforto più spesso del solitario.
Dialogo – È la forma della riflessione Del due in uno,
o uno in due. Si procede per domande, espresse o implicite. E in forma
destrutturante, scarnificante, il “levare” di Michelangelo, dello scultore, più
che per accumulo.
Dono - È il segno più certo della vivenza, la
propensione al dono. Dona chi ha, chi non ha-è non ha doni da fare.
Esicasmo – Una “idiorritmia «vera»”, lo dice
Barthes alla voce “Cristianesimo, Oriente”, delle lezioni – le prime date dal
semiologo al Collège d France a gennaio del 1977 - raccolte sotto il titolo
“Comment vivre ensemble”. Idiorritmia, cioè “proprio”, “privato”, e “regola”, la vita
solitaria regolata dei monaci. Vera nel senso che “il telos è di natura mistica: non un essere perfetto, ma «respirare»,
unirsi”.
Heidegger – Quello che è certo è che è un affabulatore, e
un inventore di gerghi. Un inventore di parole. Anche di linguaggi. Anche di
concetti? Questi restano vaghi, a ogni pur accanito approfondimento. L’unico certo è una certa visione della vita,
provinciale e anzi paesana, con accenti lirici, nazionalista “in senso buono” –
anche se “nazista” e imperialista (germanica). Nulla di speciale: Heidegger fu
un rivoluzionario conservatore nazionalista come molti altri, non solo Jünger e Schmitt, anche il Thomas
Mann delle “Considerazioni di un impolitico” e di “Fratello Hitler”. Solo che
lui era anche nazista: cioè razzista, anche se non biologico, e per questo
antisemita – non ce l’aveva solo con gli ebrei..
Il conio
verbale heideggeriano è più sul genere filosofico o su quello futurista? Questo
è da decidere – Heidegger futurista non è male.
Si
traducono e si pubblicano i “Quaderni neri” all’impronta solo in italiano - non
in francese, in inglese (uno se ne
annuncia fra tre mesi), in spagnolo. Perché gli heideggeriani sono numerosi in
Italia? Non più che in Francia, sicuramente, o negli Usa. Perché – dato che
l’interesse precipuo di questi quaderni, fino ad ora, è l’antisemitismo – in Italia
c’è più interesse per la questione ebraica? No: non degli ebrei italiani, che
sono pochi e non leggono, né di un antisemitismo italiano, che non c’è. Effetto
Iadicicco, probabilmente, la valorosa traduttrice, che in un anno e mezzo ha consentito
la pubblicazione di un migliaio di pagine, e un altro mezzo migliaio ce l’ha in
uscita. Ma anche di Donatella Di Cesare, che da vice-presidente della Fondazione
intitolata a Heidegger è diventata sua sradicatrice, con due libri e molti articoli. La filosofia al
potere?
Riso - Omero
rideva? Forse sì, in cuor suo. Di tutti quegli sbruffoni di cui gli toccava
poetare. Eccetto i pochi momenti in cui poteva renderli patetici e quasi umani.
Sarebbe un’ipotesi non da poco per gli studi. E per il riso.
Silenzio
–
È il collante del mutuo riconoscimento, se non del rispetto – può essere
collerico. Di ogni mondo, umano, animale, vegetale, minerale, e dei mondi tra
di loro.
È il segreto della comunione nella
lettura. O delle “corrispondenze” in rete, come nel film di Tornatore - entro
limiti anche di facebook: forme di intimità tacite, malgrado le tante parole
in libertà e le immagini di comodo.
Stupidità – È una difesa nel Tao: “Il saggio la
cui virtù è compiuta ama portare nel viso e nella sua presenza l’apparenza della
stupidità”. Ma allora offensiva, una strategia di attacco: una ritirata dal
mondo come una trappola. Per ingannare forze forse altrimenti soverchianti, ma
un’attitudine tra alterigia e disprezzo.
Verità – Si direbbe
indivisibile, un approccio mentale prima che etico. Rousseau invece distingue –
non è il solo, ma lui è il più argomentato, alla “Quarta passeggiata” delle
“Fantasticherie di un passeggiatore solitario”. Partendo dall’ovvio: “La verità
generale e astratta è il bene più prezioso: senza, l’uomo è cieco; essa è
l’occhio della ragione”. Ma. “La verità particolare e individuale non sempre è
un bene; talvolta è un male; spesso, una cosa indifferente”. E: “le “verità che
non hanno alcuna utilità né per l’istruzione né per la pratica, come potrebbero
essere mai considerate un bene dovuto, dal momento che non sono nemmeno un
bene?” Dunque: una verità “assolutamente priva d’utilità, anche potenziale, non
può essere cosa voluta; chi la tace o la trasforma non mente”.
Ciò è detto da uno che premette: “Non ho
nel cuore nessun altro sentimento che possa superare l’orrore per la falsità”. E:
“Giudico me stesso con tanta severità quanta forse il giudice supremo ne userà
verso di me”.
Sembra il paradosso di Epimenide
cretese, quello che asseriva: tutti i cretesi dicono il falso. Ma forse è un
misto di agudeza e di lassismo
morale. Rousseau era indulgente con se stesso, e il suo primo ricordo
importante è di una bugia che fece molto male. È anche il paradigma della
morale utilitaristica, che sembra essere l’sito di una fede protestante, di un
ordine divino disgiunto dall’umano, e personalizzato - io e il mio Dio. Le
deduzioni Rousseau attribuisce al temperamento, più che alla logica o alla
cogitazione: “Ho seguito l’indirizzo morale della mia coscienza più che le
astratte nozioni del vero e del falso”. Come sempre ponendosi al centro: “Non
ho fatto torto a nessuno e non mi sono attribuito più merito di quel che
avessi” - fino ad accusarsi di avere esagerato, nelle “Confessioni”, in bugie
ma a danno di se stesso: “Ho descritto i miei giovani anni senza vantarmi delle
belle qualità che dotavano il mio cuore”….
Rousseau parte dal proposito di sfidare
l’assunto comune che non si può “ingannare innocentemente”. E si risponde di sì:
“Dovunque la verità è indifferente, ugualmente è indifferente l’errore contrario”. Tacere la verità e dire
una bugia “sono due cose diversissime, dalle quali però può risultare lo stesso
effetto”, se è un effetto nullo. In questi casi “chi inganna dicendo il contrario
della verità non è più ingiusto di chi inganna tacendola: se si considerano le
verità inutili, l’errore non è peggiore dell’ignoranza”.
La verità Rousseau lega, quando la
analizza in astratto, alla giustizia: “La verità dovuta è quella che interessa
la giustizia”. Ma porta infine alla sua “passeggiata” l’esempio di Sofronia,
tratto dalla “Gerusalemme liberata”. Di una, cioè, che lodevolmente dice una
bugia, anche a costo della vita. Ma Sofronia si accusa di un furto che non ha
commesso per salvare Olindo - come non l’ha commesso Olindo, che pure si accusa:
entrambi si accusano per salvare altri innocenti, i cristiani di Gerusalemme.
Sofronia è in una situazione di giustizia ingiusta, da cui deve difendersi.
Rousseau (“odio le cattive massime più
delle cattive azioni”) si vuole soprattutto un artista – letterato, musico – e da
ultimo, nella stessa “Quarta Passeggiata”, il quesito risolve in poesia – apologhi,
favole, racconti, romanzi: “Mentire per proprio vantaggio è impostura; mentire
per l’altrui vantaggio è frode; mentire senza vantaggio né svantaggio, proprio
o altrui, non è mentire, non è menzogna, ma finzione”.Ma la poesia non è
comunque verità? O altrimenti, in ipotesi: la letteratura è proprio realmente
esente dalla morale, se è esente dalla verità?
zeulig@antiit.eu
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