mercoledì 17 febbraio 2016

Secondi pensieri - 251

zeulig

Amicizia – È – è più profondamente – muta. Sentita più che detta. È una forma di compartecipazione. Ma anche un forma di solitudine, senza il tomento della solitudine: il conforto più spesso del solitario.

Dialogo – È la forma della riflessione Del due in uno, o uno in due. Si procede per domande, espresse o implicite. E in forma destrutturante, scarnificante, il “levare” di Michelangelo, dello scultore, più che per accumulo.

Dono - È il segno più certo della vivenza, la propensione al dono. Dona chi ha, chi non ha-è non ha doni da fare.

Esicasmo – Una “idiorritmia «vera»”, lo dice Barthes alla voce “Cristianesimo, Oriente”, delle lezioni – le prime date dal semiologo al Collège d France a gennaio del 1977 - raccolte sotto il titolo “Comment vivre ensemble”. Idiorritmia, cioè proprioprivato, e regola, la vita solitaria regolata dei monaci. Vera nel senso che “il telos è di natura mistica: non un essere perfetto, ma «respirare», unirsi”.

Heidegger – Quello che è certo è che è un affabulatore, e un inventore di gerghi. Un inventore di parole. Anche di linguaggi. Anche di concetti? Questi restano vaghi, a ogni pur accanito approfondimento.  L’unico certo è una certa visione della vita, provinciale e anzi paesana, con accenti lirici, nazionalista “in senso buono” – anche se “nazista” e imperialista (germanica). Nulla di speciale: Heidegger fu un rivoluzionario conservatore nazionalista come molti altri, non solo Jünger e Schmitt, anche il Thomas Mann delle “Considerazioni di un impolitico” e di “Fratello Hitler”. Solo che lui era anche nazista: cioè razzista, anche se non biologico, e per questo antisemita – non ce l’aveva solo con gli ebrei..

Il conio verbale heideggeriano è più sul genere filosofico o su quello futurista? Questo è da decidere – Heidegger futurista non è  male.

Si traducono e si pubblicano i “Quaderni neri” all’impronta solo in italiano - non in francese,  in inglese (uno se ne annuncia fra tre mesi), in spagnolo. Perché gli heideggeriani sono numerosi in Italia? Non più che in Francia, sicuramente, o negli Usa. Perché – dato che l’interesse precipuo di questi quaderni, fino ad ora, è l’antisemitismo – in Italia c’è più interesse per la questione ebraica? No: non degli ebrei italiani, che sono pochi e non leggono, né di un antisemitismo italiano, che non c’è. Effetto Iadicicco, probabilmente, la valorosa traduttrice, che in un anno e mezzo ha consentito la pubblicazione di un migliaio di pagine, e un altro mezzo migliaio ce l’ha in uscita. Ma anche di Donatella Di Cesare, che da vice-presidente della Fondazione intitolata a Heidegger è diventata sua sradicatrice, con due  libri e molti articoli. La filosofia al potere?

Riso - Omero rideva? Forse sì, in cuor suo. Di tutti quegli sbruffoni di cui gli toccava poetare. Eccetto i pochi momenti in cui poteva renderli patetici e quasi umani. Sarebbe un’ipotesi non da poco per gli studi. E per il riso.

Silenzio – È il collante del mutuo riconoscimento, se non del rispetto – può essere collerico. Di ogni mondo, umano, animale, vegetale, minerale, e dei mondi tra di loro.
È il segreto della comunione nella lettura. O delle “corrispondenze” in rete, come nel film di Tornatore - entro limiti anche di facebook: forme di intimità tacite, malgrado le tante parole in libertà e le immagini di comodo. 

Stupidità È una difesa nel Tao: “Il saggio la cui virtù è compiuta ama portare nel viso e nella sua presenza l’apparenza della stupidità”. Ma allora offensiva, una strategia di attacco: una ritirata dal mondo come una trappola. Per ingannare forze forse altrimenti soverchianti, ma un’attitudine tra alterigia e disprezzo.

Verità – Si direbbe indivisibile, un approccio mentale prima che etico. Rousseau invece distingue – non è il solo, ma lui è il più argomentato, alla “Quarta passeggiata” delle “Fantasticherie di un passeggiatore solitario”. Partendo dall’ovvio: “La verità generale e astratta è il bene più prezioso: senza, l’uomo è cieco; essa è l’occhio della ragione”. Ma. “La verità particolare e individuale non sempre è un bene; talvolta è un male; spesso, una cosa indifferente”. E: “le “verità che non hanno alcuna utilità né per l’istruzione né per la pratica, come potrebbero essere mai considerate un bene dovuto, dal momento che non sono nemmeno un bene?” Dunque: una verità “assolutamente priva d’utilità, anche potenziale, non può essere cosa voluta; chi la tace o la trasforma non mente”.
Ciò è detto da uno che premette: “Non ho nel cuore nessun altro sentimento che possa superare l’orrore per la falsità”. E: “Giudico me stesso con tanta severità quanta forse il giudice supremo ne userà verso di me”.
Sembra il paradosso di Epimenide cretese, quello che asseriva: tutti i cretesi dicono il falso. Ma forse è un misto di agudeza e di lassismo morale. Rousseau era indulgente con se stesso, e il suo primo ricordo importante è di una bugia che fece molto male. È anche il paradigma della morale utilitaristica, che sembra essere l’sito di una fede protestante, di un ordine divino disgiunto dall’umano, e personalizzato - io e il mio Dio. Le deduzioni Rousseau attribuisce al temperamento, più che alla logica o alla cogitazione: “Ho seguito l’indirizzo morale della mia coscienza più che le astratte nozioni del vero e del falso”. Come sempre ponendosi al centro: “Non ho fatto torto a nessuno e non mi sono attribuito più merito di quel che avessi” - fino ad accusarsi di avere esagerato, nelle “Confessioni”, in bugie ma a danno di se stesso: “Ho descritto i miei giovani anni senza vantarmi delle belle qualità che dotavano il mio cuore”….
Rousseau parte dal proposito di sfidare l’assunto comune che non si può “ingannare innocentemente”. E si risponde di sì: “Dovunque la verità è indifferente, ugualmente è indifferente  l’errore contrario”. Tacere la verità e dire una bugia “sono due cose diversissime, dalle quali però può risultare lo stesso effetto”, se è un effetto nullo. In questi casi “chi inganna dicendo il contrario della verità non è più ingiusto di chi inganna tacendola: se si considerano le verità inutili, l’errore non è peggiore dell’ignoranza”.

La verità Rousseau lega, quando la analizza in astratto, alla giustizia: “La verità dovuta è quella che interessa la giustizia”. Ma porta infine alla sua “passeggiata” l’esempio di Sofronia, tratto dalla “Gerusalemme liberata”. Di una, cioè, che lodevolmente dice una bugia, anche a costo della vita. Ma Sofronia si accusa di un furto che non ha commesso per salvare Olindo - come non l’ha commesso Olindo, che pure si accusa: entrambi si accusano per salvare altri innocenti, i cristiani di Gerusalemme. Sofronia è in una situazione di giustizia ingiusta, da cui deve difendersi.

Rousseau (“odio le cattive massime più delle cattive azioni”) si vuole soprattutto un artista – letterato, musico – e da ultimo, nella stessa “Quarta Passeggiata”,  il quesito risolve in poesia – apologhi, favole, racconti, romanzi: “Mentire per proprio vantaggio è impostura; mentire per l’altrui vantaggio è frode; mentire senza vantaggio né svantaggio, proprio o altrui, non è mentire, non è menzogna, ma finzione”.Ma la poesia non è comunque verità? O altrimenti, in ipotesi: la letteratura è proprio realmente esente dalla morale, se è esente dalla verità?

zeulig@antiit.eu

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