martedì 1 marzo 2016

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (277)

Giuseppe Leuzzi

Un miliardo e mezzo a Milano da Roma per la ricerca scientifica. È più di tutta l’Italia messa assieme. Dopo i tre miliardi per l’Expo, per i mangiarini sfiziosi dei lombardi. Non c’è gara. .

Ma che se ne fa il Nord del Sud?

Pietro Mancini contesta in chilometriche lettere al “Corriere della sera”, che volentieri gliele ospita, che il rinnovo della Salerno-Reggio sarà completato entro l’anno. Ha ragione, un 10 per cento del percorso non sarà ristrutturato, fra i 35 e i 40 km. Ma lui non lo sa. Dice che pochi km a nord e a sud subito della sua città, Cosenza, il percorso è quello della vecchia autostrada, stretto e tortuoso. Si vede che non ha mai fatto l’autostrada, non da qualche anno. Uno dei tanti calabresi che non conoscono la Calabria – che tutti scrivono al “Corriere della sera”.

Pietro è figlio di Giacomo Mancini, che la Salerno-Reggio inventò e realizzò cinquant’anni fa, Con tante curve, ma anche con viadotti altissimi, che ancora reggono. Il Sud non è immobile: cambia in peggio.

“Tre miliardi di euro, dieci volte di più di quanto immaginato nel lontano 1999, il triplo di quanto prevedeva lo studio di fattibilità del 2003. Tanto costerà alla fine, se mai ci si arriverà, la costruzione dei 95 chilometri della Pedemontana Veneta, epica infrastruttura all’ordine del giorno da trent’anni e ad oggi realizzata per appena il 25%. Con soldi interamente pubblici, benché l’opera sia stata affidata nella progettazione e nella costruzione ai privati, che ne avranno anche la concessione per 39 anni”. Scandalo per questa prosa di Mario Sensini al “Corriere della sera”. Che il giorno dopo rimedia: tutto è a posto nel Veneto, la Pedemontana si farà.  

L’antimafia è aristocratica
L’attacco più robusto contro il “gattopardismo”, la zona grigia, è venuto da Tomasi di Lampedusa, un aristocratico. Un aristocratico a parte intera, uno che più blasonato non si può, non un compagno di strada, non un opportunista. Pirandello, che ci aveva provato con più foga cinquant’anni prima, “I vecchi e i giovani”, aveva fallito il bersaglio.
Lo stesso in Calabria: l’unica scossa in mezzo secolo di bonaccia mafiosa è venuta da Teresa Cordopatri. Un’altra aristocratica, altrettanto povera come Tomasi e altrettanto sprezzante. S’è messa in piazza, sfidando gli sguardi bassi, e ha fatto capire quanto l’ordine – la mancanza di ordine - sia esiziale, il gattopardismo (menefreghismo, opportunismo) del potere.

Le calabrotte che ripopolarono le Langhe
Già anticipato nel “Mondo dei vinti” quarant’anni fa, Nuto Revelli ha ripreso dieci anni dopo, nel 1985, ne “L'anello forte”, le vicende di due o trecento donne calabresi, contadine per lo più, sposate nel dopoguerra per procura a contadini delle Langhe. Non per carenza di donne nel Piemonte, che erano anzi in sovrannumero dopo la guerra, ma perché nessuna voleva impantanarsi nelle campagne, tra la fatica e la povertà. nelle Langhe voleva perché tropo rotti dalla fatica e troppo sporchi, ai contadini pulciosi preferendo gli operai dalla paga sicura.
Nel “Mondo dei vinti” Revelli ha sfiorato il fenomeno: pur essendo di quelle parti non lo vedeva.  Poi ci ha ripensato. La realtà supera sempre l’immaginazione. Specie la sociologia. La realtà del Sud e del Nord certamente: Nord e Sud superamo ogni immaginazione, tanto è il male di fondo.
Lo stesso fenomeno possiamo testimoniare ripetuto a fine Novecento nel Trentino: ragazze calabresi venivano invogliate a matrimonio con lontani montanari, con la lusinga di diventare “padrone”, di un pezzo di terra, una stalla, un fienile, una casa. Salvo scoprire che erano attese come un mulo da lavoro, gratuito – i tempi erano cambiate per le donne, solo i montanari alpigiani erano rimasti alla fatica manuale. .
Le mogli per procura non erano ignorate in Piemonte, avevano anzi un nome, “calabrotte”. I ruffiani erano chiamati “bacialé”. Che però ruffiani non erano considerati, anche se procuravano i matrimoni a pagamento, a carico dei contadini piemontesi, come rimborso spese: la loro attività presentavano anzi come benefica, a fini sociali, per i contadini e per le calabrotte.
L’ultimo bacialè di Nuto Revelli, peraltro, era donna, e calabrotta essa stessa: Maria Elisabetta Neri, detta Lisa. Rievocata un mese fa sulla “Stampa-Cuneo” da Isotta Carosso a Mango, tra Santo Stefano Belbo e Alba, tra Pavese e Fenoglio, dove se ne celebrava il funerale. La sua “è la storia”, scriveva Revelli, “di due Italie contadine che si incontrano: che si ignoravano da sempre, lontane, diverse, ma drammaticamente uguali di fronte alla società che conta”. 
Era originaria di Catona, periferia di Reggio, borgo di mare urbano. Ma non aveva esitato a sposare la campagna più remota, sotto le Alpi. Aveva 28 anni. “Mio Marito”, ha raccontato a Revelli e poi a Rai Storia, “l’ho visto in foto e poi una volta sola prima del matrimonio. La prima notte abbiamo dormito insieme a casa mia, ma abbiamo contato i soldi ricevuti per regalo e basta. Il giorno dopo siamo partiti”. Ha avuto due figli. A Mango e dintorni aveva poi combinato ventisei matrimoni misti, con ragazze del suo paese, senza muoversi, con scambi di foto. È stata celebrata in morte come “una langhetta orgogliosa, dedita alla vendemmia e alle nocciole”. Slow Food se ne propone la celebrazione, “per ringraziare le donne calabresi che negli Anni ’70-’80 hanno impedito lo spopolamento delle nostre campagne”.
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Sicilia
Emigra, è emigrata, più volentieri a Milano che a Roma. A Milano non si trova più milanese di un  siciliano, disciplinato, produttivo, costante, di umore e applicazione. Che sarà però siciliano nell’isola. Per questo Cuccia se ne teneva lontano, giusto la visita al cimitero ogni paio d’anni? Per gli umori dell’isola.

L’isola, un fattore che si trascura ma sempre attivo. Malgrado le autostrade, gli aerei e i treni veloci. Più marcato forse in Sardegna, prima del turismo estivo e delle seconde case - ma appena ieri. Più robusto in Sicilia, anche per un orgoglio isolano. Fino alla voglia di perdersi.

Nel 1924 Antonio Pizzuto, temporaneamente radiato dalla polizia e insegnante supplente di liceo a Palermo, legge “Ulysses” e ne resta ammaliato. Due anni dopo la pubblicazione semiclandestina a Parigi. Legge “Ulysses” naturalmente in originale. Tanto a suo agio nella lettura che ne propone la traduzione all’editore Sandron – poi la cosa non si fa per motivi editoriali e per gli impegni alimentari di Pizzuto. La storia va “’n’arreri” (© Domenico Tempo) al Sud.

Trent’anni più tardi Palermo sarà ancora protagonista, col “Gatopardo”. Inarrivabile anche per questo motivo: il lamento più convincente contro il “gattopardismo”, contro le mafie. Ma era l‘ultimo soffio di un’aristocrazia dello spirito moribonda, come l’isola.

È la regione con più storia. E quella che ha il record delle persone, dai sei anni in su, che non hanno letto nemmeno un libro nel 2014, secondo l’Istat, il 72 per cento della popolazione.
Seguono, in questa classifica negativa, la Puglia (70,8), la Basilicata (69,6), la Campania, (68,3), la Calabria (67,1).

Bella e irragionevole la voleva già Brancati. E piena di furie: rapida, senza riflettere. L’inimicizia isolana Brancati soprattutto spiega, “I due nemici” (ora in “Scritti per il “Corriere” 1942-943”), furiosa come l’amicizia. Inspiegabile, ma effettiva.

La Sicilia come porta del mito, si dice, che per i siciliani è realtà: l’eccesso. Che in Sicilia è mentale, malgrado i turgori e la natura amica – i terremoti ne risparmiano le antichità. Malgrado i dolci, i vini, i mari.

Vittima – costante, senza eccezioni – del suo spirito “tragediatore”: da Lampedusa allo stesso Sciascia, e a Riina naturalmente, Badalamenti, Inzerillo e gli altri balordi. Si può essere certi che tutti  siciliani ci cascano, anche quelli di maggior fortuna a “Milano”, negli affari, come Sindona e Dell’Utri. Solo Cuccia vi sottrasse, riconoscendosi siciliano ma tenendosi lontano dall’isola. Dalla sindrome del potere, che la mafia si rappresenta come opera dei pupi.

Ha il record delle grandi opere incompiute, una su quattro Italia, imbattibile. Lo spreco suntuario è sempre stato la caratteristica isolana. Solo che altrove, e in mota dottrina, il lusso è considerato il motore dello sviluppo, in Sicilia invece della dépense, dello spreco. La spesa suntuaria si fa come ostentazione e si porta a titolo di nobiltà dai paffuti parvenu isolani della politica, i “vasavasa” e i corrotti. Come se l’aristocrazia fosse scema. .

Piero Chiara, scrittore lombardo, anzi del lago Maggiore, anzi di Luino, era di padre siciliano, trasferito in Lombardia, ala frontiera con la Svizzera, come agente delle dogane. .Il genitore di cui conserva il ricordo, benché fosse sui cinquanta quando si sposò ed ebbe il figlio. Ma senza mai un accenno alla Sicilia, nemmeno del padre, nei ricordi del figlio. Le radici sono un fatto culturale: psicologico, storico – temporaneo. Sono una delle ardici del leghismo, che sia impositivo, di superchieria, o negativo, di rivolta. 

Sciascia non si voleva “scrittore siciliano”, nella corrispondenza con l’ultimo e definitivo “editore” da lui scelto, Adelphi (“critica sempre mossa ai Verga e ai Pirandello”), ma – così sintetizza Piero Melati sul “Venerdì di Repubblica”, “scrittore italiano che conosce bene la Sicilia (come metafora) e autore di portata europea”.

leuzzi@antiit.eu 

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