La prima di una lunga serie di
celebrazioni francesi, con Nerval, Nodier, Baudelaire et al.. Sulla traccia di
De Quincey, con l’hashish comprendendo anche l’oppio, ma più in chiave quasi
positivistica, della sperimentazione. Particolarmente fredde queste di Gautier,
ultime esperienze con i vecchi compagni di bohème.
Abbastanza da poterle rivivere e trascrivere personalmente, senza l’aiuto del
testimone esterno, come farà l’ancora più freddo Benjamin. La “tradizione” sarà
infatti ripresa, via Parigi, da Walter Benjamin, Ernst Jünger e altri uomini tedeschi
meno illustri. Per diventare infine promozionale, negli anni 1960 negli Usa, di
una paraindustria, nell’ambito della cultura hippie dei fiori.
Le droghe non fanno poesia. Di uso non
eccezionale prima, diventano quasi obbligate dopo De Quincey e nella monarchia
orleanista a Parigi, ma a nessun effetto creativo. Se ne ricavano immagini
bizzarre e colori vivaci – oggi di produzione industriale: traslucidi,
fosforescenti. Gautier ne riferisce come di una stranezza quasi metafisica. Che
l’uomo abbia bisogno di alcol o, nei paesi orientali dove l’alcol è proibito
dalla religione, delle droghe, per una sorta di bisogno di estasi: “Il
desiderio dell’ideale è così forte nell’uomo da fargli cercare di allentare … i legami che tengono
l’anima unita al corpo; e siccome l’estasi non è alla portata di tutte le
nature…”.
Si somministrava l’hashish all’epoca –
come ancora per Benjamin – in forma commestibile: le foglie venivano cotte “con
burro, pistacchi, mandorle e miele, in modo da formare una specie di confettura
abbastanza somigliante alla marmellata di albicocche”.
Théophile Gautier, Hashish, Il Sole 24 Ore, pp. 78 € 0,50
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