Scalfari usa la sua affettuosa
recensione di Pierluigi Battista (“Mio padre era fascista”) su “Repubblica”
lunedì, per dire come fu fascista. Dal 1931 al 1943, dalle elementari
all’università. Fino a quando Carlo Scorza lo espulse dal partito per un articolo
su “Roma fascista”, settimanale del Guf romano al quale Scalfari collaborava da
due anni, che giudicò antifascista. Scalfari ne soffrì per quattro giorni, dice,
e poi se ne fece una ragione: “Lui in questa materia ne sa più di me. Quindi
ha ragione lui: io sono antifascista, altrimenti non avrei scritto quell’articolo”.
Ma fa un quadro inesatto dell’analoga evoluzione degli italiani.
Di sé Scalfari può dire che era stato
come tutti fascista senza riserve: “Non starò qui a raccontare come vissi quel
periodo, negli anni in cui frequentavo il ginnasio a Roma, poi a Sanremo, poi
di nuovo a Roma quando entrai all’Università nel ‘41. Dirò soltanto che la mia
appartenenza al fascismo non era minimamente turbata da dubbi. Il Duce era il
Duce, le canzoni che Battista padre canticchiava a casa ed aveva cantato a
squarciagola negli anni del fascismo imperante e poi di Salò, anch’io le ho
cantate e di tanto in tanto capita anche a me di ricanticchiarle adesso” Ma, rievocando con Battista il “problema” del
padre, sembra condividerlo: “Il padre aveva scelto (Pierluigi) come il solo cui
confidare il proprio rovello, la propria rabbia, la propria disperazione contro
l'Italia e gli italiani che erano stati (quasi) tutti fascisti durante il
ventennio e poi si erano convertiti in massa all’antifascismo mettendo all’indice
quei pochi, anzi pochissimi, che avevano mantenuto i loro ideali d’un tempo”. No: all’indice gli italiani che erano stati (quasi) tutti fascisti hanno messo l’antifascismo, di chi aveva sacrificato dieci e vent’anni, magari i migliori, all’esilio o al silenzio, se non alla prigione. Anche l’antifascismo comunista, seppure a opera di comunisti.
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