L’insormontabile
classismo britannico dentro la più ampia e determinata rivendicazione femminile
un secolo fa, quella per il voto alle
donne in Gran Bretagna. Un tema promettente. Tanto più per essere il film di
una regista di famiglia super upper class
– padre milionario laburista, e baronetto, madre vice-sindaco di Londra. Ma
svolto con timidezza e anzi confuso. O svigorito in fase di montaggio, dalla
produzione o dalla stessa regista, a maggior gloria di quella che oggi sarebbe
una battaglia “civile”, dei belli-e-buoni senza distinzione di classe.
Questo è quello che il pubblico è portato a vedere. Giocando anche sul richiamo di Meryl Streep, che invece è in scena per solo mezzo minuto. E proprio in quella che avrebbe dovuto essere probabilmente la scena madre, con la borghesissima Emmeline Pankhurst che esce dal rifugio ben protetta, dalla stessa polizia, per incitare all’“armiamoci e partite”. Anche il doppio standard della polizia, uno con le povere e un altro con le ricche, è lasciato infine in sordina, nell’indistinto generale.Un racconto incongruente. Oltre che bizzarramente triste, per essere di lotte e di lottatrici, di una rivoluzione alla fin fine.
Le donne del film non si capisce perché si ostinino, in una rivoluzione che è delle signore bene politicanti, loro che sono operaie, licenziate per il militantismo, picchiate dai mariti o cacciate di casa, quanto sono sporchi e cattivi i poveri, private dei figli, privilegiate dai manganelli e le carceri. E passive, esauste: mettono le bombe e non sanno perché. Il coevo antifemminista Marinetti richiamando subdolo, della prosa “Il disprezzo delal donna”, 1911: “In questo sforzo di liberazione, le suffragette sono le nostre migliori collaboratrici, poiché quanti più diritti e poteri esse otterranno alla donna, quanto più essa sarà impoverita d’amore, tanto più essa cesserà di essere un focolare di passione sentimentale o di lussuria. La vita carnale sarà ridotta unicamente alla funzione conservatrice della specie”.
Sarah
Gavron, Suffragette
Questo è quello che il pubblico è portato a vedere. Giocando anche sul richiamo di Meryl Streep, che invece è in scena per solo mezzo minuto. E proprio in quella che avrebbe dovuto essere probabilmente la scena madre, con la borghesissima Emmeline Pankhurst che esce dal rifugio ben protetta, dalla stessa polizia, per incitare all’“armiamoci e partite”. Anche il doppio standard della polizia, uno con le povere e un altro con le ricche, è lasciato infine in sordina, nell’indistinto generale.Un racconto incongruente. Oltre che bizzarramente triste, per essere di lotte e di lottatrici, di una rivoluzione alla fin fine.
Le donne del film non si capisce perché si ostinino, in una rivoluzione che è delle signore bene politicanti, loro che sono operaie, licenziate per il militantismo, picchiate dai mariti o cacciate di casa, quanto sono sporchi e cattivi i poveri, private dei figli, privilegiate dai manganelli e le carceri. E passive, esauste: mettono le bombe e non sanno perché. Il coevo antifemminista Marinetti richiamando subdolo, della prosa “Il disprezzo delal donna”, 1911: “In questo sforzo di liberazione, le suffragette sono le nostre migliori collaboratrici, poiché quanti più diritti e poteri esse otterranno alla donna, quanto più essa sarà impoverita d’amore, tanto più essa cesserà di essere un focolare di passione sentimentale o di lussuria. La vita carnale sarà ridotta unicamente alla funzione conservatrice della specie”.
Di
Emily (Davison), personaggio storico, che alla fine muore – non volendo - per la
causa, ignoriamo lo spessore resistenziale: una che in pochi mesi fu
imprigionata nove volte, e contro gli scioperi della fame subì una cinquantina
di nutrizioni forzate, una specie di tortura. Dopo aver cercato più volte, per
anni, un acculturamento universitario e una qualificazione che la redimessero
dal lavoro di bambinaia. Un altro effetto mancato: il radicalismo è piccolo
borghese.
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