Al suo Urvolk
– il popolo tedesco, “primordiale”, “puro” – il privilegio Fichte connette alle
“condizioni di razza e di origine, che un Rosenberg oggi non esiterebbe a
chiamare ebraiche… o cattoliche”. Famoso e un po’ famigerato, l’excursus di
Evola nel razzismo germanico è una presa di distanza, al limite dell’irrisione.
Benché ne scrivesse nel 1937, quando l’Italia stessa accedeva
all’antisemitismo. I miti sono una cosa seria, ammoniva subito: veri o falsi,
sono un’idea guida, difficile da smantellare. Ma sono funzionali, a una
concezione o formazione politica, a uno Stato, a interessi vari. E
capovolgibili: “Si deve riconoscere che questi spunti razzisti si capovolgono
in idee completamente opposte”.
La trattazione è difficile da maneggiare dopo
l’Olocausto. Ma è di lettura opportuna oggi, nella paura dominante della misgenation, dell’invasione che l’Europa
teme dall’Asia e dall’Africa. E non è solforosa, come si vuole quanto si
riferisce a Evola: è su un indirizzo da studioso e non da politico – “il nostro
proposito, una pura esposizione oggettiva” – che licenzia l’impresa commissionatagli
dall’editore Hoepli. Commissionata a un autore che aveva più volte criticato il
razzismo hitleriano: “Il «mito» del nuovo nazionalismo tedesco”, 1930; “La
mistica del sangue nel nuovo nazionalismo tedesco”, 1931; “Osservazioni
critiche sul «razzismo» nazionalsocialista”, 1933; “La concezione
«antiromano-razzista» del diritto”, 1934; “Superamento del razzismo” e “Paradossi
dei tempi: paganesimo razzista = illuminismo liberale”, 1935; “L’equivoco del
«nuovo paganesimo»”, 1936. Punteggiandolo, sia pure solo per spirito di
polemica, derisoriamente – questo “Mito” è un saggio del migliore radicalismo
italiano, da “Lacerba” a Salvemini, e infine a Pasolini, ma di prima mano, di
chi sa di che tratta. Di Hitler, nel capitolo conclusivo, mette in rilievo il
proposito di suscitare nel popolo tedesco, come dice lui, “fondato sull’unità
del sangue”, un “sicuro istinto di mandria”. La peggiore ingiuria per uno che
fa professione, chiudendo il suo excursus, “di una spiritualità
intransigentemente antimoderna, aristocratica, imperiale e «romana»”.
Simbolo
oscuramente scelto
Evola spregia il razzismo, ma ne conosce la forza.
La razza è un mito non nel senso che sia una finzione. È un’idea e un progetto,
che trae la sua forza persuasiva da elementi non razionali. “Quello del sangue,
della razza, e più specificamente del sangue nordico e della razza aria”, Evola
dice “il simbolo oscuramente scelto” dalla Germania di Hitler. E si accinge
alla disamina del fenomeno premettendone i limiti: si contesti pure un mito
razionalmente, freddamente, scientificamente, non se ne “raggiungerà mai il
nucleo più profondo, ossia l’intima necessità, il fatto di sentimento che dà
sostegno e forza al mito stesso” – il mito è “un centro di cristallizzazione”,
aggiunge stendhaliano.
Il mito risale a Herder, al suo “spirito dei
popoli” come manifestazione divina. Alla scuola anglo-tedesca Georgia-Augusta di
Gottinga, specializzata nell’arianesimo. E a Fichte: al suo popolo tedesco come
Urvolk, popolo “primordiale” che ha saputo
conservarsi “puro”, senza adattamenti – a differenza dei Franchi, tedeschi
“impuri”, e altre tribù teutoniche. Con due codicilli: solo la lingua tedesca e
la filosofia tedesca sono “originarie”, solo il cristianesimo tedesco è
cristiano. E un’avvertenza: “Il popolo metafisicamente predestinato ha il
diritto morale di realizzare il suo destino con tutti i mezzi dell’astuzia e
della forza”. Il tutto mescolato, come è d’uso in Germania ancora ai giorni
nostri, con la professione di “umanità totale”: lo “Stato organico” Fichte
vuole fondato “sull’uguaglianza di ogni essere che abbia sembiante umano”.
Viene poi Gobineau, che indagando la decadenza
degli imperi e le civiltà, la imputa alla “degenerazione etnica”. Di cui è
veicolo l’uguaglianza – il conte era conseguente, a differenza di Fichte. “La storia
sorge solo dal contatto con le razze bianche”, stabilì famosamente. Dopo Gobineau dilaga
l’antropologia, orecchiata (Chamberlain) e accademica – anche da parte di
studiosi ebrei. Una lunga sfilza di nomi e di teorie che Evola diligente elenca
e illustra, con un sottile effetto ironico – oggi certo, ma probabilmente anche
ieri, per varie sottolineature interpolate qua e là. Di più estendendosi sulle complesse
architetture di Hans F.P.Günther, Hermann Wirth, e di F. Ludwig Clauss, tra i
loro tipi e sottotipi, le ricostruzioni della preistoria, e gli spassosissimi –
non fossero stati innestati sul razzismo – “caratteri” delle “tipologie”
razziali, completi di figurazione fotografica. Per concludere, con lo
studiosissimo Günther, che “la maggior parte dei tedeschi non solo non derivano
da genitori di razza magari diversa ma pura, ma sono il risultato di elementi
già misti”. E col ridicolo di Rosenberg, che priva gli ebrei anche della
religione….
La religione nordica
Opera dotta, seppure breve, e complessa: molti garbugli
e tracciati Evola spiega. E in poche – relativamente – pagine un immenso dettagliato
sciocchezzaio mette in chiaro. Presentato come tale, per note fugaci ma
sensibili, agli snodi. È inutile menarla, conclude a proposito
dell’antisemitismo, su cui tutta la ricerca razziale, un secolo e mezzo di
voluminose classificazioni, poi converge, la questione è etico-sociale. Cioè:
fuori gli ebrei, che fanno troppi affari e si prendono i posti migliori. La
questione è, aggiunge Evola, quella che Dühring, e il critico di Dühring Marx,
hanno impostato nel 19843-1844. Con citazioni da far rabbrividire. Ma con umoristica
nota conclusiva: “Non si può sempre spiegare il predominare degli Ebrei nelle
professioni intellettuali con i loro raggiri e la loro astuzia”. Esilarante
anche a tratti. Con la “religione nordica” di Rosenberg, Hauer, von
Reventlow, Bergmann. O quella laica
dello stimato Water Darrè, “Contadinato quale Fonte di Vita della Razza
Nordica”
Devastante da ultimo, in gergo calcistico,
nell’attacco al capitolo “Razzismo e
antisemitismo”. Tutto il mito della razza – l’antropologia, la
preistoria, la storia, la psicologia e la psicosociologia – è inteso a fondare
l’antisemitismo, e non si vede come: “Come da questo composto etnico”, il
popolo ebraico, “abbia potuto sorgere un sentimento così vivo di solidarietà e
di fedeltà al sangue, conservatosi anche nelle situazioni meno propizie, e tale
da far pensare che il popolo ebraico praticamente sia stato fra i più
«razzisti» della storia, questo è un mistero su cui gli autori antisemiti
gettano poca luce”. Un antisemitismo della razza ma anche della religione.
Della religione ebraica “è vero che già un ebreo, lo Spinoza, aveva accusata
una certa corpulenza, crudezza e sensualità”, ma su questo metro, conclude
subito Evola, non c’è religione che si salvi.
La scienza razzista è di nessun fondamento, se
non lo sciovinismo. Ma densa, densissima di argomentazioni, anche se false e
molto spesso bislacche. Di disinvoltura pari alla presunzione. L’Umanesimo e il
Rinascimento sono in genere disprezzati. Ma a volte (Chamberlain, Woltmann)
annessi, germanizzati. Chamberlain arianizza anche Gesù, “dolicocefalo biondo”.
Evola procede incredulo, essendo un germanizzante, di formazione e di scelta. Specie
considerando, come notava già Chamberlain trionfalistico, che il mito tedesco
della razza “in nessuna forma si conserva in modo così eloquente come nell’avversione istintiva contro Roma”. E
finisce per montare una Biblioteca della Stupidità. Anche da
imperialista romano-centrico, opposto all’impero germano-centrico. Ma è la
stessa scienza della razza che si presenta incontinente nella sua sintesi.
Julius
Evola, Il mito del sangue, Ar, pp.
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