Anschluss – Nel 1933
Vienna proibiva il partito nazista in Austria. Anzi, per proteggersi dalla minaccia
tedesca, il cancelliere Dollfuss abolì di fatto anche il Parlamento, trasformando
il suo governo in un semitotalitarismo, stile fascista. L’anno dopo fece dichiarare
il suo partito l’unico legale, e strinse un patto con l’Italia e l’Ungheria, i
Protocolli di Rioma, a difesa dell’indipendenza dell’Austria. Al ritorno fu assassinato
in un tentativo di colpo di Stato dei nazisti austriaci. Mussolini mobilitò al Brennero a difesa dell’indipendenza
dell’Austria. Ma il successore di Dollfuss, Schuschnigg, mantenne una politica
di autonomia. Fino al marzo 1936: dopo che Hitler ebbe compiuto senza reazioni
internazionali la rimilitarizzazione della Renania, Schuschnnig si preoccupò di
venire a patti. A luglio l’accordo era sancito: Austria indipendente, ma senza
processo agli attentatori di Dollfuss e con un governo di coalizione coi
nazisti. A luglio l’accordo era fatto.
A marzo
1938 Hitler entrava a Vienna acclamato. Senza reazioni importanti, anche se i trattati
di pace del 1919-1920, sia con la Germania che con l’Austria, esplicitamente
proibivano l’annessione dell’Austria alla Germania.
Germania – Il
nazionalismo vi è indomabile. Tenuto in soggezione in quanto aveva confluito
nel nazismo, il suo demone ha fatto presto liberarsi di nuovo dopo la
riunificazione. Ha radici complesse e resistenti, solide, molto più del fondamentalismo
hitleriano.
Non
si fa abbastanza caso della “rivoluzione conservatrice” che animò il primo
dopoguerra tedesco, di Jünger e Thomas Mann fra i nomi più celebri, con Carl
Schmitt e Heidegger, che non si possono rubricare perché compromessi con
Hitler. Mntre si tace della immensa pubblicistica contro i “trattati periferici
parigini”, i trattati di pace di Versailles e viciniori, recepiti come “iniqui”
da tutti gli studiosi tedeschi di
diritto internazionale e di filosofia del diritto. La materia del revanscismo è
enorme: gli sfollati dalle regioni orientali annesse alla Russia e la Polonia:
Prussia, Slesia, Galizia; i bombardamenti, al fosforo, a tappeto, sterminatori:
la resa incondizionata; lo stesso tribunale di Norimberga. E si accresce con tempo
- una montagna vulcanica..
Ha
come inno nazionale un inno austriaco. L’inno nazionale che la Germania
Federale ha adottato, il “Deutschland über alles”, o “Das Lied der Deutschen”,
il canto dei tedeschi (alla terza strofa, che canta “Unità, giustizia e libertà”),
è stato scritto dal poeta August Heinrich von Fallersleben nel 1846. Ma l’inno
è famoso per la musica di Joseph Haydn, composta molto tempo prima
naturalmente, quasi cinquant’anni, nel 1797, e accompagna un “Kayserhymne”, un inno
all’imperatore d’Austria Francesco II.
Il
razzismo è indubbiamente scienza tedesca, per quantità se non per qualità. Ma molto”Mein
Kampf” Hitler tirò fuori da “The passing of the Great Race”. Non di una corsa,
automobilistica o podistica, ma della “razza grande”, nordica., dell’eugenista americano
e famoso Madison Grant, che fece le leggi per l’immigrazione negli Usa, a danno
dei latini, gli slavi e gli asiatici neri, contro la misgenation, e altre per la morte misercordiosa degli incapienti.
Erik
Wolf, “Richtiges Recht im nationasozialistiche Staate”, 1933, sistemò
definitivamente le razze tedesche: la nordica, la falica, la dinarica e
l’alpina. Alle proteste del Sud della Germania aggiungendo successivamente un
quinto elemento, mediato dalle pratiche eugenetiche, di miglioramento della
razza. Wolf passerà dopo la guerra per resistente, della Chiesa Confessante
evangelica.
Germanicità - I tedeschi Graziadio Isaia Pascoli, “Archivio
glottologico italiano”, 1873, così magnificava: “S’invidia ai tedeschi, non già
un interesse privilegiato, non già una dottrina che in ogni parte soddisfaccia,
ma quel felicissimo complesso di condizioni, mercé il quale nessuna forza
rimane inoperosa e nessuna è sprecata, perché tutti lavorano, e ognuno profitta
del lavoro di tutti, e nessuno perde il tempo a rifar male ciò che è già fatto
e fatto bene. S’invidia la densità meravigliosa del sapere, per la quale è
assicurato, a ogni funzione intellettuale e civile, un numeroso stuolo di
abilissimi operai”. Certo, gli mancava una “dottrina che in ogni parte
soddisfaccia”.
Anche
gli ebrei professi, nota Klemperer in “LTI”, parlavano il linguaggio che sarà di
Hitler. È con la sconfitta del 1918, e la parallela insorgenza del sionismo
(fino ad allora austriaco, anzi viennese) in Germania, che “i Tedeschi e gli Ebrei
Tedeschi cominciarono ad allontanarsi gli uni dagli altri”. Un allontanamento
di cui Klemperer fa lungamente la colpa a Herzl, fino a imputargli un linguaggio
che Hitler avrebbe copiato, sia pure mediato dalla sua Austria, dalla koiné austriaca – con un che di astioso
per uno studioso del linguaggio: come se il fondatore del sionismo lo avesse
amputato della patria tedesca.
“La
lingua è più del sangue”, è assioma del filosofo Franz Rosenzweig. Più che ogni
altra difficoltà dell’esilio, Hannah Arendt lamenterà ripetutamente l’amputazione
della lingua, della madrelingua tedesca – oltre che ipotizzare, per liberare la
Germania dalla Colpa, la seconda guerra mondiale come
“una forma di guerra civile che abbraccia la terra intera” (in un saggio che
intitola “Sulla rivoluzione”).
È ammirato
anche Primo Levi, “Lo scoiattolo”, elzeviro della “Stampa”: “È incredibile la diligenza con cui i filologi
tedeschi del secolo scorso hanno scavato nelle radici dell’italiano, dei suoi
dialetti, e le sue parlate anche più riposte”.
Nella
normalità dell’abominio – violini, cori, teatro, aiuole e davanzali fioriti –
mancava anzi questa di Primo Levi (“Lo scoiattolo”, in “L’altrui mestiere” –
ora in “Ranocchi sulla luna e altri animali”): la gabbia degli scoiattoli. “Ho
incontrato pochi scoiattoli nella mia vita”, premette Levi, “qualcuno nei
boschi”, come tutti, o “nei parchi di Ginevra e Zurigo”. Quelli che ricorda
sono altri: “Altri ne ho visti in prigionia, ma non apparivano meno vivaci né
meno allegri dei loro colleghi della foresta. Erano una dozzina, rinchiusi
dentro una grande gabbia”. Nella grande gabbia una più piccola, la “«gabbia di scoiattolo», cioè cilindrica, appiattita
e ad asse orizzontale, senza sbarre da un lato e liberamente girevole attorno all’asse
medesimo”. Insomma, curatissima. Fatta apposta per i giochi degli “animaletti”,
che Levi ricorda “visibilmente compiaciuti”.
Kissinger – Molto deve a
Carl Schmitt, che non nomina. La teoria dell’equilibrio – da studioso del
Congresso di Vienna. Il sistema delle sovranità nazionali, o della pace di
Westfalia che lo incoronò, per un paio di secoli governò l’Europa. E da ultimo
– dal 1975 - e tuttora il multipolarismo. Che è la teoria dei Grossraum, dei grandi spazi, di Schmitt
- “Grossraum gegen Universalismus” è un suo titolo, e di gandi spazi è piena la
sua opera. Sempre scettico, per omissione, della guerra giusta che sembra
infiammare gli americani, e comunque ne è lo strumento, l’asse della pax americana.
Multipolarismo – È la teoria dei
“grandi spazi” di Carl Schmitt, dei Grossraum.
Che così sintetizza nel “Nomos della terra”: “Un pluralismo di grandi spazi, in
sé ordinati e coesistenti , di sfere di intervento e di aree di civiltà
potrebbe determinare il nuovo diritto internazionale della terra”. Materia di
buon numero di saggi del 1939-1940, quando la Germania aveva vinto la guerra.
Ma derivata dalla Dottrina Monroe, lo stesso Schmitt suggerirà dopo la guerra –
con una punta di perfidia verso l’inviso occupante americano – nello stesso
“Nomos della terra”, p. 311.
Si
direbbe la dottrina dei vincitori, delle potenze.
astolfo@antiit.eu
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