Col “concetto discriminatorio di guerra”, tra guerre
giuste e guerre ingiuste, “si giunge a scardinare l’ordinamento internazionale finora
vigente, ma nessun nuovo ordinamento viene fondato al suo posto. Così viene
soltanto avanzata una nuova pretesa di dominio mondiale, che solo una nuova
guerra mondiale potrebbe tradurre in realtà”.
Il fondamento del “concetto non discriminatorio” è il
riconoscimento del nemico come iustus
hostis, invece di libellarlo Stato Canaglia, e non solo per la propaganda.
L’esito è “che questa guerra priva del loro prestigio e della loro dignità i
concetti di guerra e di nemico e li annienta entrambi, trasformando la guerra
condotta dalla parte «legittima» in un’esecuzione o in una misura di
epurazione, mentre la guerra della parte illegittima è una guerra illecita e
immorale di parassiti, sobillatori, pirati e gangster”.
L’effetto è anche di escludere la neutralità, in tutte le
sue forme, “benevola”, “armata”, “limitata”. In un disegno unitario che è
imperiale: “Non appena viene negata l’idea di una possibile neutralità, e con
essa la nozione di «Stato terzo» non partecipante alle ostilità, emerge la
pretesa di esercitare un dominio universale o regionale”.
Introdotto da Danilo Zolo, tradotto e curato da Stefano
Pietropaoli, la pubblicazione di questo Schmitt risale al 1938, la lettura se
ne fa perciò con riserva – Schmitt, nazionalista conservatore, era anche vicino
al regime nazista. Le tracce dell’epoca sono denunciate dallo stesso giurista subito,
con un omaggio all’“articolo straordinariamente interessante del barone Julius
Evola, «La guerra totale», nella rivista «La Vita Italiana (Il Regime
Fascista)»”. E poi con una costante polemica contro lo spirito divisivo della
Società delle Nazioni quando adottò le sanzioni contro l’Italia, uno dei suoi
paesi membri, dopo la guerra all’Abissinia.
Pur con questo limite, la raccolta è di attualità
estrema: dalla guerra del Golfo in poi, 1991, si conferma la “profezia
apocalittica” di Schmitt, di una “guerra globale”, endemica, sottratta a ogni
condizione e perfino alle formalità di legge – l’Italia di Scalfaro e D’Alema
fece guerra alla Serbia senza nemmeno dichiararla, senza scandalo di nessuno,
tacquero pure i vestali della Costituzione. E contro tutto e tutti, Stati,
comunità, gruppi politici. Di una guerra “giusta” come una guerra civile, senza
frontiere, e senza regole, né limiti. È già qui “la distinzione chiara ed
esplicita fra il concetto classico di guerra (non discriminatorio) e quello
rivoluzionario, improntato a giustizia (discriminatorio)”. Con tutti i fatti
che oggi viviamo: la cancellazione dell’Onu, anche solo come foro di
discussione, la criminalizzazione del nemico, la guerra preventiva ad libitum, da Israele nel 1967 alla
Turchia oggi, la guerra “umanitaria”, la guerra di civiltà, gli “Stati
canaglia” – altra categoria schmittiana, i vecchi Raüberstaat – e il Tribunale dell’Aja, creazione e strumento degli
Usa.
La pubblicazione si compone di tre testi. Recensioni di
alcuni manuali che innovavano il diritto internazionale, Scelle, Lauterpacht,
Fischer Williams, McNair. Che ne rivoluzionavano il fondamento, svuotando la sovranità
nazionale e l’autorità statuale a favore dei diritti civili, si direbbe oggi,
di una concezione individualistica anche del diritto internazionale, all’ombra
della Società delle Nazioni. Schmitt concorda che una innovazione è necessaria,
lo ius publicum europaeum era perento, ma la soluzione prospettata è in
peggio: un’innovazione che apre e non chiude né limita la guerra, rispetto al
vecchio sistema delle sovranità nazionali, degli Stati come soggetti di diritto
internazionale. All’ombra, peraltro, di poteri di polizia imperialistici,
ancorché non dichiarati. Un ritorno di fatto al diritto bellico medievale,
quando l’arbitro era dichiarato ed era il papa.
La profezia
della guerra globale
L’introduzione Danilo Zolo intitola “La profezia della
guerra globale”. Questo Schmitt è infatti sorprendente oggi, nella guerra
diffusa e globale – molto più che nella polemica tedesca. “Abolendo” la guerra
nel senso clausewitziano, del perseguimento della politica con altri mezzi, il
presidente Wilson e la Società delle Nazioni hanno aperto un vaso di Pandora,
facendone uno strumento di distruzione illimitato, sotto i propositi pacifisti
e universalisti. La Società delle Nazioni è, scrive Schmitt nel 1938, “solo un
mezzo per la preparazione di una guerra «totale» in sommo grado, e cioè di una
guerra «giusta» condotta con pretese sovrastatali e sovranazionali”. Non poteva
che fallire. Oppure no, si potrebbe dire: ha preparato il terreno per
l’Alleanza, poi vittoriosa nella grande guerra successiva, culminata infine con
la Nato-Onu. Ma ha anche instaurato un
regime di guerra perpetua.
La dissoluzione dello ius
publicum europaeum non è, non è stata, un fatto giuridico astratto: ha mutato
il concetto di guerra, e ci tiene in
guerra anche in pace, nel riarmo morale e in quello repressivo o di polizia.
Rompendo il sistema westfaliano, nato con la pace di Westfalia a metà Seicento:
il mutuo riconoscimento della sovranità degli Stati, che ha preservato l’Europa
dall’autodistruzione e le ha consentito il periodo di massimo sviluppo sociale
e politico, nel Sette-Ottocento. In
questo che è il suo più lungo periodo di pace, dal 1945, l’Europa è stata in
realtà in guerra fredda, con molti episodi bellici in senso proprio, poi nelle
guerre etniche per i diritti, e ora nella guerra di civiltà o di religione con
l’islam – con una parte dell’islam per fortuna, minoritaria anche se
determinata fino alla morte (ma forse non molto minoritaria).
Già Versailles - i trattati di pace post-1918 – aveva
decretato la guerra dei perdenti un “crimine internazionale”, da codice penale.
L’art. 227 del trattato di pace con la Germania già prefigurava il tribunale di
Norimberga. Con esiti infausti, poiché perpetua la guerra: giusto o non giusto,
il diritto della “guerra giusta” è catastrofico. L’istituzione di Norimberga, nota
Zolo, fu siglata l’8 agosto 1945, e cioè due giorni dopo il bombardamento di
Hiroshima e un giorno prima del bombardamento di Nagasaki”. La guerra “giusta”,
prolungata in “umanitaria”, è per di più una guerra di distruzione totale,
senza distinzione fra obiettivi militari e civili, e senza più l’economia del
minimo sforzo per il massimo risultato, ed è una guerra di polizia, ancorché si
fregi di combattere per la libertà e la democrazia.
Il modello westfaliano è idealizzato e indefinito. A
difesa di Schmitt, si può aggiungere che esso è risuscitato da qualche tempo dalla
stessa America, da Kissinger già nel 1975, dopo la “lezione” del Vietnam, e ora
con “L’ordine mondiale”, del mondo
multipolare. E, anche se non dichiaratamente, dal Dipartimento di Stato, e dallo stesso Pentagono. La pace di Westfalia, se stabilizzò il sistema delle potenze, fu
lacunoso e imperialista (l’Italia, per esempio, non vi rientrava in alcun modo
– né la Spagna), ma efficace: limitò la guerra. Fino alla Grande Guerra, che fu
già una rottura dello ius publicum
europaeum, prima degli Usa, di Wilson e di Schmitt. Come lo erano state le
guerre coloniali: lo ius piublicum
europaeum fu propriamente elaborato nel ‘500 (da Francisco de Vitoria et
al.) come diritto di conquista. O già le guerre napoleoniche . La storia in realtà
è questa: prima la Francia volle rompere l’equilibrio di Westfalia, nel primo
‘800, poi la Germania, un secolo dopo. E la Germania non si acconcia all’egemonia
americana, con Schmitt negli anni della sconfitta, pre e post guerra mondiale,
e ora con l’egemonia in Europa.
La polizia degli
ideali
È la prima trattazione schmittiana dello sviluppo del
diritto di guerra – del diritto internazionale che è di fatto diritto bellico
- che si completerà nel “Nomos della
terra”. Redatta in un tempo in cui la Germania si risentiva di un
assetto internazionale punitivo, e tuttavia di impianto forse oggi più valido
di ieri, deprivato cioè del risentimento. A fondamento del nuovo diritto
Schmitt pone la decisione americana, del presidente Wilson, il 2 aprile 1917,
di dichiarare guerra alla Germania sulla base della ragione e del torto: è
l’avvento di “una guerra totale”, nella sintesi di Zolo, “non più sottoposta a limitazioni
giuridiche e quindi sommamente distruttiva e sanguinaria”. Tanto più,
paradossalmente, per voler essere umanitaria – “e tuttavia considerata non solo
«giusta» ma addirittura «umanitaria», perché concepita come azione di polizia
internazionale contro i nemici dell’umanità”. Un diritto motore di instabilità
e guerra cronica, presagiva Schmitt e oggi ognuno vede.
Un raggiro diplomatico e legale, aggiungeva Schmitt, e
una facile clausola di supremazia – chi osa opporsi al diritto umanitario? Lo
diceva in funzione revanscista, ma non senza fondamento. Dopo una magistrale
sintesi – non uguagliata – delle strategie Usa di politica estera. Dalla
Dottrina Monroe, 1823, al “destino manifesto” di O’Sullivan, 1848,
all’espansione “universalistica” di Theodor Roosevelt a fine ‘800, secondo la
logica dei mercati economico e finanziario, alla “guerra giusta” di Wilson. Che
è il tradimento del cosmopolitismo cui si appella, quello di Kant, di Spinoza,
e l’instaurazione di un ordine mondiale inappellabile, sorretta da illimitata forza
militare. Una polizia delle idee, anzi degli ideali.- “Caesar dominus et super grammaticam”
Carl Schmitt, Il concetto discriminatorio di guerra, Laterza, pp. XLI
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