Meryl Streep avrà avuto molte
ragioni a Berlino, al festival del cinema, per premiare Rosi. La luce grigia. La maestria delle
riprese e del montaggio. Le immagini parlanti, mai mute (superflue). Un parlato essenziale, pregno. Un Mediterraneo indifferente. La capacità
narrativa: tante scene resteranno memorabili, la filosofia della fionda, la
lezione d’inglese, il caffè dei vecchi coniugi, la radio locale, il subacqueo
solitario, il dialogo notturno con la civettina, la mangiata frontale degli spaghetti al sugo di seppia. E poi c’è il soggetto certo, l’immigrazione.
Lo spessore umano di questa storia accelerata, febbrile, quasi inverosimile - come di mandrie di bisonti, di zebre, di gnu, alla prima luce, incerta, nel bush africano. Ma piace
pensare che abbia voluto il premio perché infine vediamo cosa succede. Vent’anni
di sbarchi e ecatombi, 400 mila arrivi, 15 mila morti. E giornali, giornalisti
e tv a centinaia ogni giorno sull’isola, a migliaia, che non hanno visto nulla
e non ci hanno detto in realtà nulla.Il film è esteticamente molto
bello: semplice ma curato in tutto, nei dialoghi, le psicologie, le
ambientazioni, perfino nell’uso del dialetto, per chi può seguirlo. Ma è infine,
senza volerlo, senza polemica, un film verità. Prodotto – va aggiunto poiché si
celebra come un successo del made in Italy – dai francesi di Arte.
Gianfranco Rosi, Fuocoammare
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