Amore – È mistico, oltre che corporeo - è corporeo
per essere mistico, simbolo e materia di unione corporea sempre, anche se non
propriamente sessuale. La chiave è il linguaggio: il linguaggio mistico è tutto mutuato da quello amoroso. Che è –
anche questo è un fatto – venuto prima di quello mistico.
Roger
Bastide, il socio-psicologo del misticismo, contesta l’uso di fare “del
misticismo una specie di erotismo”. Il limite è del linguaggio: “I mistici
sanno benissimo che le parole da loro usate non corrispondono o corrispondono
molto male ai loro veri sentimenti, ma vogliono farsi comprendere”. Disturba un
apparentamento - misticismo-erotismo - inteso come filiazione. Ma il contrario con
più verità si può arguire, essendo l’esperienza religiosa una delle prima se
non la prima: dell’amore come religiosità, divinizzazione.
Corpo – È – anche – l’anima, non solo per l’aspetto
fisico, la complessione, la figura. Proprio in quanto ammasso muscolare e osseo.
Al modo come già dice Cicerone nelle “Tuscolane”, I, XXXIIII: “È di grande importanza per
l’anima essere collocata in un corpo piuttosto che in un altro: poiché ci sono
nel corpo molti elementi che acuiscono la mente e molti che la ottundono”.
Evoluzione
– Lo “Struggle for Existence”, il capitolo III di “The
Origin of Species”, Darwin conclude decretando che “the vigorous, the healthy, and the happy survive and multiply”. Non è vero, più spesso prevalgono
e sopravvivono i brutti, sporchi e cattivi. Anche oggi, molte specie scompaiono
che portano letizia, e altre se ne impongono crudeli e pestifere, l’hiv, la
mucca pazza, l’aviaria, ebola, la zanzara brasiliana, come già la peste e le
carestie. La vita è hobbesiana, cioè senza criterio, bisogna difendersi.
La
selezione naturale non è progressiva (selettiva), l’uomo sì. Il successo della
selezione naturale sarà stato di avere “creato” l’uomo, tutt’altra specie.
Incontri – Non si incontra più nessuno per caso, per
avventura, per coincidenza, per armonie prestabilite – in treno, in tram, al
caffè, per strada, in vacanza, al lavoro. Si è sempre collegati al telefonino.
Al più si incontra qualcuno su internet, a distanza, nel vago. Saremo sempre
quello che eravamo.
Memoria – È vita, come dice lo scrittore Alvaro. Anche
in morte: l’annientamento è sconfitto dalla memoria. Il dimenticato medievista
e filologo tedesco Friedrich Ohly lo spiega con precisione: “Gli uomini
sopravvivono al loro corpo finché sono in vita coloro che ne serbano il
ricordo”. O le opere che lasciano, si può aggiungere – creazioni spirituali e
manufatti, nomi, fatti, anche disgrazie. E del resto si sa, per dirla con Ohly,
che non c’è storia senza memoria. “Il flusso del tempo scorrerebbe via come il
Lete”, il fiume dell’oblio, senza la memoria: “La memoria trasforma in storia
l’accadimento, dà forma a ciò che fluisce”. E crea la società – ancora Ohly:
“La memoria delle esperienze vissute concorre a configurare il nostro futuro.
La comunità trae vita dalla sua memoria”, tra passato e futuro. Ma ognuno lo sa:
noi siamo i nostri ricordi. La memoria come narrazione, evidentemente,
rappresentazione.
È un fatto
psicologico, l’accumulo delle esperienze? È un fatto fisiologico? Le due cose
si saldano: “Nessuna memoria è più salda che la memoria del sangue”, sintetizza
l’antropologo Lombardi Satriani in “De sanguine”.
Costante
e necessario ne è l’esercizio, fino all’alzheimer. Una vita senza memoria è inimmaginabile.
E anche impossibile, nel senso di successione o continuità di eventi, di soluzione
a ogni istante “in automatico” di sistemi di equazioni complessi.
È l’invenzione
e il ricostituente della tradizione. Era per i greci una divinità, Mnemosine, che
era la madre delle nove muse. Gli orfici l’aldilà figuravano come un inferno
dove obliare l’oblio, si può dire: dove trascurare il Lete, il fiume del’oblio,
per dissetarsi invece alla fonte della Memoria.
Il
potere la coltiva perché è la radice dell’essere, individuale e comunitario. Da
Augusto (ma già da Pericle) a Mussolini in forme plateali: coi monumenti, le
epigrafi (slogan), le narrazioni.
L’alfabeto
del Socrate di Platone, “Fedro”, doveva ingenerare “oblio nelle anime di chi lo
imparerà: essi cesseranno di esercitare le memoria perché, fidandosi dello
scritto, richiameranno le cose alla mente
non più dall’interno di se stessi ma dal di fuori, attraverso segnie
stranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma un
richiamare alla mente”. E imbeve ha proroddot una solida memoria (tradizione),
anche socratica. La posta elettronica he destabilizzato in una generazione uno
dei capisaldi delel scieze storiche, delle sue fonti più ghiotte, l’epistologgrafia,
tra confidenza e segreto.. Ma ha moltiplicato la forma diario. Corrispondenza,
il poco che ne rimane,.sottrae anche al dominio privato, esclusivo e spesso
distruttivo.e diario
Nietzsche – A un certo punto è stato preso troppo seriosamente. La sua seriosità è nella
svagatezza, lo “Scherzo e Malizia” delle postille, la musica, l’antiaccademismo,
dopo essere stato in cattedra senza titolo, e subito dopo baby pensionato, a
vita. Il suo “eterno ritorno” in realtà è un incubo – lui lo figura come un
incubo. La sua”morte di Dio” angosciosa – Nietzsche è figlio di pastore luterano:
è annunciata dall’“uomo folle”, e confermata
a lui da un gaudioso uditorio di atei che accolgono l’annuncio con “una grassa
risata” – la conseguenza sarà un “oscuramento” (l’oscuramento dei vangeli alla
morte di Cristo).
Riso – È strumento critico più che divagatore – in
forma di divagazione. Così come lo sconforto del resto, il pianto, l’ira. Così
lo individua Nietzsche, “La gaia scienza”, aforisma 333, facendo proprio,
ribaltato, il motto di Spinoza, “Non ridere, non piangere né sdegnarsi, ma
comprendere”. Nel senso che l’intelligenza è la risultante del riso, il pianto,
l’ira mescolati insieme, “un certo
rapporto degli impulsi tra di loro”, dice Nietzsche, sottolineato. Il “pensiero
consapevole” considerando una parte, e non la migliore, del pensiero.
Socrate – È antisocratico, diffidando della scrittura,
cioè di una comunicazione dei suo pensieri. Anche della testimonianza della sua
saggezza, quindi del ruolo di maestro o comunque di testimone – il suo è un
processo senza contraddittorio, per sua volontà. O altrimenti è uno che tace,
il Cristo che dice superbo: le mie opere parlano per me, non ho bisogno di
discolparmi.
Il Socrate
di Platone, che macina parole anche se non scrive, è anch’esso antisocratico.
Il suo fascino
è forse nel metodo, che però ha più del paradosso – della riproposizione del dubbio
nel mentre che “apre” (scardina) la verità.
zeulig@antiit.eu
Nessun commento:
Posta un commento