Esibizionismo – L’artista è un
esibizionista. Anche l’artigiano, fino a un certo punto. E il manager. Il santo
di più: se non è esibizionista non è esemplare, come la santità si vuole. E
dunque una virtù?.
Luce – Messa al centro della liturgia cattolica da
Giovani Paolo II (dal Concilio Vaticano II) e professata specialmente dal papa
Francesco, è al centro della spiritualità razziale ariana per il conte de
Gobineau: “il concetto di luce, di splendore”, nella sintesi critica che ne fa Evola.
Gli dei ariani di Gobineau sono “nella più stretta relazione col principio
intellettuale”, dell’intelletto “creatore e dominatore”: “Gli dei ariani sono essenzialmente divinità della luce, dello splendore
solare, del cielo luminoso, del giorno. Dalla radice du, che vuol dire illuminare, sarebbe derivato il nome degli dei
nazionali più significativi delle sottospecie della razza: il deva e il dyaus degli Indù, il Deus
dei Latini, lo Zeus degli Elleni, il Dusgallico, il Tyr
nordico, il Tiuz dei Tedeschi
antichi, il Devana degli Slavi”.
Nietzsche – Avversava gli antisemiti - anche per questo infine Wagner. E in generale
il razzismo. Ma ne pone le fondamenta, seppure al suo modo, asistematico e anzi
disomogeneo. Resta biologica la sua “religione della vita”, avalutativa e
intrascendente. L’“inversione di tutti i valori” è la castrazione della sua
“vita”. A opera dello spirito, contro l’istinto, la “forza vitale”. Dei “valori
della decadenza”, cristianesimo compreso,
e del “risentimento”, a opera degli schiavi, i deboli, i reietti della
natura. Per un moto aristocratico, forse, condito dalla religione a lui
contemporanea della “natura”, ma il suo Superuomo è alla fine la bestia bionda
conquistatrice.
Opinione pubblica – È la “volontà generale” di
Rousseau – il lato oscuro della cosa.
Prova - È evidence in inglese. Uno dei falsi amici linguistici, poiché la
prova non è evidente. Va sempre trovata (scovata), e quando appare “evidente”
resta da decifrare – quando non da individuare nella sua stessa “evidenza”,
come la “lettera aperta” di Poe.
Religione – È sempre sacrificio, anche se ora simbolico.
In tutte le forme testimoniate. Sacrificio altrui: l’officiante, dovendo
testimoniare, sopravvive. Ma senza ironia: la divinità è sempre temuta, una
entità che va propiziata.
È il fondo portato in chiaro da Girard. Ma è in questo quadro l’attrattiva (rivoluzione) del cristianesimo, il fatto che introduce un’altra dimensione. Il sacrificio di sé, anzitutto, e non altrui. E come segno non di paura ma di amore. E nello stesso tempo rende conto del significato tradizionale della religione, nelle intemperanze tra Padre e Figlio, e anzi nella rivolta del Figlio nei confronti del Padre – della Legge, della Tradizione.
È il fondo portato in chiaro da Girard. Ma è in questo quadro l’attrattiva (rivoluzione) del cristianesimo, il fatto che introduce un’altra dimensione. Il sacrificio di sé, anzitutto, e non altrui. E come segno non di paura ma di amore. E nello stesso tempo rende conto del significato tradizionale della religione, nelle intemperanze tra Padre e Figlio, e anzi nella rivolta del Figlio nei confronti del Padre – della Legge, della Tradizione.
Carnalità
e religiosità vanno di pari passo, anch’essi, nell’esperienza storica. Anche nei
soggetti più avulsi, si penserebbe, dai sensi; i santi e, più ancora, le sante.
Tradizione
-
I fedeli sostengono che la storia vanifica la lezione del passato, che la
tradizione invece illumina. Sì, il passato, anche remoto, non trapassa. “Chi
non è quello che fu\ fa poesia”, insiste Mary De Rachewiltz. Una cosa che non è
pura, il passato contiene tutto, compresi gli errori, e
vergognose lacune - questo sapeva già Gobineau, “Sull’ineguaglianza”, il
tradizionalista vittima di Wagner e dei wagneristi. Il passato tende
all’arteriosclerosi, privilegia le cose vecchie, le vicine le rimuove. Donde
l’esigenza d’interpretare
la tradizione: alleviare il peso del passato, non lieve a giudicare dalla
lentezza dei progressi, è l’unico modo per esorcizzarlo. Il passato è la nostra
essenza, non perché millenario, ma perché cerebrale, folle, duro.
La stessa poesia diventa reale col fluire
dei secoli. Con “l’oscuro sentimento” che Fichte depreca, il costruttore della
nazione e del sociale. La favola s’incarna nella tradizione, che si alimenta
del sangue del popolo. Dai
tempi di Herder la tradizione, è “disseminata” sulla terra, come la ragione –
Herder che, diceva, “non sono che un’onda sul mare della storia”.
La
tradizione è dove si esercita la libertà. È la tradizione che ispira il
mutamento. Un meccanico la direbbe l’albero di trasmissione. L’odio della
tecnica è malposto, perché ne tocca il motore, l’innovazione, e non il
presupposto, che può essere giusto e sbagliato. L’innovazione produce solo
frutti, il problema è una modernità piatta. Senza radici sarebbe mera
ripetizione, sia pure consolante, che quindi sa di morto.
È
cultura della decadenza, il culto del passato, di rovine, morti. Dell’Occidente
impaziente col passato, che così si vendica. Dappertutto altrove invecchia e
muore la natura, non la cultura, la memoria della sto-ria. È l’effetto del
movimento a freccia, che il bersaglio intermedio sia fallito o centrato -
l’Occidente è un arciere che va di corsa, e a volte vede e capisce poco, mentre
bisogna portare pazienza.
Se
la tradizione rendesse accessibile tutta la realtà d’un tempo non ci sarebbe
d’altronde più storia: sarebbe un bene? “E può succedere”, Heidegger avverte,
“che storia e tradizione vengano appiattite a magazzino indistinto
d’informazioni, utili per l’inevitabile pianificazione di cui l’umanità
pilotata ha bisogno”. Pilotata, e da chi? L’arpa tripla, lo strumento che
caratterizza la musica in Galles, è versione dell’arpa barocca italiana, adattata dall’arpista della regina Anna, Elias Sion Siamas. Il
pilota potrebbe essere il maestro Siamas, la regina Anna, o lo stesso Galles.
La modernità è antica, direbbe un Oscar
Wilde. Ma è pure vero che la storia senza la modernità sarebbe un mondo di
pizzichi. La modernizzazione è insensata dove la ricchezza è la tradizione, lo
sradicamento va bene per gli sradicati. Ma non è detto: la scienza ha bisogno
d’una tradizione per determinarsi, per capirsi. Anche se alcuni nascono in una
caverna migliore di altre.
La storia esiste, ma ogni linguaggio e
ogni storia, insegna Gadamer, è colloquio con la tradizione. Che è l’essenza
dell’interpretazione. E quindi della verità. Un
passato non è mai dato, Huizinga insegna, solo la tradizione è data. Vale dunque il
precetto di Paratore, che il rettore Taubes da sinistra diede a Rudi Dutschke,
d’imparare il latino.
Verità – Il documento stesso è una menzogna, argomenta Le Goff: “Si dimentica che la sua verità è quasi tutta
nelle sue intenzioni”. La verità, nella Bibbia, era la voce di Dio, proprio in
senso acustico, quello che si dice. Dio
si
nasconde, nel roveto ardente perfino sotto la formula evoluzionista: “Io sarò
quello che sarò”. Ma se il mondo è creato qualcosa di divino ci dev’essere
rimasto, imperscrutabile, nell'uno e nell’altro senso, del sapere e non
sapere, e del sapere di non sapere.
Nietzsche filologo ne ha intuito il meccanismo
– della verità, ma è come dire della tradizione – nell’appunto su verità e
menzogna dettato al barone von Gersdorff, ciambellano di Prussia, poi non
pubblicato: “Cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie,
antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state
potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite,
e dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide e vincolanti”.
zeulig@antiit.eu
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