martedì 22 marzo 2016

Un terrorismo europeo

Molto il terrorismo urbano islamico ha dell’attacco esterno, all’Europa, ai valori dell’Europa - o alle sue abitudini mentali – e alla sua forza militare o di repressione: la forma (il fanatismo kamikaze), la finalità dichiarata o rivendicata, la scelta degli obiettivi, tutti in qualche modo simbolici, esemplari, il gioco, la danza, l’informazione, la vita collettiva, il “lavorerio”. Ma è un terrorismo più o meno europeo, a Bruxelles come già in Francia e a Londra. Di europei di seconda generazione, nati e educati in Europa. Con legami tenui, perfino inesistenti, con centrali terroristiche estere.
Gli attentatori conosciuti vanno in coppia, in genere fratelli, nati o cresciuti in città in Europa, e soli o solitari, neanche buoni mussulmani, anzi neanche mussulmani, solo irretiti dal gioco al massacro, una  sorta di videogioco. Giovani senza radici, non familiari né di cultura, preda di ogni eccesso, dalla microcriminalità al teppismo e al bullismo, di sé stessi compresi, identità  senza identità - quella islamica é robusta.
Il fatto è tanto più vero se collegato al volontarismo, anche di giovani europei senza legami di sangue o di religione con l’Arco delle Tempeste arabo-islamico. Effetto del romanticismo della rivoluzione: della religione della purezza e del nuovo inizio, del Prometeo liberatore. Di superficialità estrema, e comune generazionalmente, nei casi in cui i kamikaze hanno parlato prima di morire o, se sopravvissuti, pentendosi: non hanno idea di quello che hanno fatto, il loro “messaggio”, quello che hanno recepito e pensano di lanciare, è del tipo twitter, una battuta.  
Un falso mito – falso per l’approssimazione - a cui sarebbe facile rimediare, se l’Europa non vivesse essa stessa in falsi miti, fuori dalla realtà delle cose. Rimediare non nel senso di cancellare il mito e l’orizzonte del Prometeo, ma di ancorarlo: al lavoro, all’impegno, politico, sociale, alla cittadinanza – invece che al benessere dovuto, aun orizzonte chiuso al selfie.

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