La protezione: il supermeccanismo supermafioso,
buono anche per la Forza Pubblica, si chiama protezione. Per la Forza Pubblica o
apparato repressivo (giudici, polizie) è politica e economica, per la mafia è economica:
significa che di ogni buon affare vuole una parte. Solo questo. Allargando
l’obiettivo al concorso esterno in associazione di tipo mafioso si colpiscono
di più le mafie, oppure di meno?
Il
tradimento delle borghesie compradore
Nel 1862 una commissione d’inchiesta sul
brigantaggio, presieduta dal moderato lombardo Antonio Mosca, sostenne che il
brigantaggio aveva valenza soprattutto sociale: una reazione ai soprusi delle
locali borghesie agrarie, che l’unità aveva irrobustito, per le primissime sue
leggi, intese a favorirle, e per i meriti
patriottici rivendicati, anche se presunti, con l’appropriazione dei beni
comuni, e di quelli ecclesiastici, che invece da secoli erano in conduzione ai
coltivatori. La diagnosi non piacque e la relazione fu secretata. A fine anno,
il nuovo governo torinese, presieduto da Urbano Rattazzi, succeduto al barone
Ricasoli, istituì una vera e propria Commissione d’inchiesta sul brigantaggio.
La relazione Mosca non era piaciuta perché
chiamava in causa, con le nuove borghesie meridionali, i loro rappresentanti in
Parlamento. Molti dei quali erano della Sinistra, peraltro, e molti
meridionali, vecchi emigrati prima dei Mille. La nuova inchiesta fu voluta
dalla Sinistra. Per allontanare i dubbi del rapporto Mosca, e per indagare i
torti inflitti ai contadini, il perché molti di loro avevano preso le armi, per
una sconfitta certa.
Della Commissione, nove membri, fecero parte
noti garibaldini: Aurelio Saffi (Forlì), Nino Bixio (Genova) e Giuseppe Sirtori
(Milano). Con un altro ligure, Stefano Castagnola, e cinque meridionali:
Stefano Romeo (Reggio Calabria), Achille Argentino (Melfi), Antonio Ciccone
(Nola), Donato Morelli (Cosenza), Giuseppe Massari (Bari). Quest’ultimo, il più
giovane, fu incaricato di redigere la relazione.
I nove s’imbarcarono il 7 gennaio 1863 a
Genova, giunsero a Napoli tre giorni dopo, vi restarono due settimane, quindi,
con grande scorta armata, si misero in marcia verso il Foggiano. Bixio ne fu
disgustato: “Davvero mi fa schifo tutto quello che vedo in questo paese!”,
scrisse alla moglie, “Che paesi! Si
potrebbero chiamare dei veri porcili!”, “Questo popolo in massa è almeno tre
secoli indietro rispetto al nostro”. La moglie di Saffi ebbe invece dal marito
lettere coloristiche, e anche ammirate.
Bixio lascerà dopo poco la politica, per tornare
in mare – finirà in Malesia, per morirvi di febbre gialla, nel 1873. Ma non
prima di avere avuto soddisfazione dalla relazione del tarantino Massari.
Giordano Bruno Guerri (“Il sangue del Sud”) estrapola dalla relazione del
parlamentare pugliese mezza pagina di epiteti infamanti – “l’intera inchiesta
fu infarcita di luoghi comuni, di pregiudizi e di stereotipi razziali”: “Misero
ceto, orde di masnadieri, infame banda…”. La lotta al brigantaggio era “la
peggior sorta di guerra che possa immaginarsi è la lotta tra la barbarie e la
civiltà” ..
Le borghesie del Sud – intellettuali, della
manomorta, degli affari – hanno svolto il ruolo che nelle società arretrate del
Terzo mondo è stato teorizzato come “compradore”. Quelle del Sud non rispondono
esattamente al termine, non si sono segnalate come sbocchi di esportazione. Ma
sì nel ruolo di sicofanti: di facilitatori della conquista. Anche gratuiti.
Cioè no, in realtà:erano – e sono - politici, ministeriali, appaltatori,
profittatori di regime, corrotti passivi e attivi ai sensi del codice penale e
non. Ma convinti, sempre nel giusto - deprecatori, a loro volta, della locale
barbarie.
Fu un altro deputato meridionale, l’abruzzese
Giuseppe Pica, a redigere la legge che porta il suo nome, in forza della quale
quasi tutto il Sud continentale fu dichiarato a Ferragosto del 1863 “in stato di brigantaggio”. Con la
sospensione di ogni garanzia di diritto: una ventina di giornali furono
quotidianamente censurati e spesso sequestrati, ottantanove consigli comunali
furono sciolti. Trentanove nei soli territori circoscritti della Terra
d’Otranto e del Teramano. Che erano due delle cinque aree del Sud escluse dallo
stato d’eccezione, insieme con Napoli, Bari e Reggio Calabria.
Calabria
Non si trova l’origine del bergamotto, della
pianta e della parola. L’agrume la cui essenza è necessaria per stabilizzare i
profumi. Che si produce nella zona jonica che da Scilla contorna Reggio
Calabria fino a Bova. Si fanno convegni, si finanziano studi, e niente. Ma non
si capisce se è il bergamotto elusivo, oppure l’intelligenza.
Una teoria dice il bergamotto bergamasco. Un
documento è stato trovato che dice la “lumia bergamotta” “uno di que’ peri che, come vuole
l’Aldovrando, erano stati trasportati per il resto d’Europa da Bergamo”. È
stato trovato non da bergamaschi, gente pratica. Anche perché una petra
difficilmente è configurabile come l’acerbissimo bergamotto.
Un’ipotesi alternativa lo vuole Beg Armudi,
“pero del Signore” in turco. E perché? “Alcuni turchi vendettero un rametto di
Beg Armud o Pero del Signore alla nobile famiglia dei Valentino di Reggio
Calabria”, cui il canonico di famiglia Giuseppe Morisani attribuì l’acquisto
illuminato e la diffusone della pianta. Al punto che in Turchia se ne perdette
la memoria.
Il cedro ha avuto note proprietà cosmetiche,
vantate da Ovidio. E fino, almeno a Boncompagno da Signa, che le vanta per
accenno, come di cosa molto cognita, nella “Rota Veneris”, a fine
Millecento. Ora la coltura si riduce
ogni anno, a Cetraro, e solo anzi in ragione della richiesta dei rabbini
europei per usi rituali. L’idea che una cosa si possa (debba) vendere non è di
questo mondo.
O forse non si vuole contraddire il detto: chi
ha il pane non ha i denti.
Il “ritorno” è un genere molto praticato al
Sud. Non tanto dagli emigrati transoceanici, più da quelli di Torino e Milano.
E al Sud più che altrove è praticato in Calabria. I giornali locali sono pieni
di lettere e testimonianze di ritorni. Tutti avvelenati. Tutti ricordano un
mondo bellissimo e non hanno parole per vituperare il presente. Evidentemente,
c’è una vena masochista nella psiche calabrese.
Nessuno ha ricordato Raf Vallone nel centenario
della nascita l’altro mese. Grande animatore culturale, da molti carati, oltre
che attore di personalità e successo, al cinema e in teatro, calciatore del
Torino da giovane e critico cinematografico, responsabile della terza pagina
dell’“Unità” di Torino da indipendente, non tesserato del Pci, e critico
professo di Stalin. Un “santo”, quasi perfetto oltre che bello e acuto, ma nato
inutilmente e cresciuto a Tropea.
Aldo Cazzullo del resto, nel suo omaggio a
Torino negli anni del dopoguerra, “I ragazzi di via Po”, ne fa un grande
personaggio ma non menziona nemmeno la sua nascita e l’emigrazione.
Non c’è legge. Non ci sono regolamenti
urbani. Ma se avete targa non locale e
sforate di dieci minuti il permesso di parcheggio la multa vi arriverà a casa
nell’arco di due giorni. L’efficienza può essere rapida.
L’intransigenza pure, che non si direbbe in
terra di intimidazioni e grassazioni. La legge Merli fu applicata all’istante quarant’anni
fa, sulle acque reflue. Carabinieri, Finanza e Pretori sanzionarono e chiusero
i frantoi oleari a centinaia, perché inquinavano fossi e torrenti. Mentre si
può vedere tuttora nei mari pregiati della Versilia l’inquinamento galleggiare
in superficie, trasportato dai torrenti dove ognuno scarica quello che vuole. La
giustizia sa essere terribile, in questi paesi senza giustizia.
Fu in Calabria che l’esercito borbonico si sciolse – in Sicilia si limitò a non combattere. Più di due terzi dell’organico in Calabria defezionarono. Molti per soldi e per promesse di carriera.
Non l’eldorado, non ci sono scorciatoie. Ma Riace, che per primo dodici anni fa ha deciso di integrare gli immigrati, un paio di centinaia, ha visto i residenti crescere da 1.700 a 2.200. Una primavera demografica e una rifioritura delle attività artigianali e degli affari.
leuzzi@antiit,.eu
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