Eco non
è razzista. Ma considera Milano non leghista, parlandone con Aldo Cazzullo, “I
ragazzi di via Po” sul finire degli anni 1990 – dopo cioè vent’anni di leghismo
trionfante a Milano 1 e dintorni (Bocca, Cederna, lo stesso Eco, etc).: “Non so
se i miei amici siano milanesi, e nessuno si chiede mai se il vicino di casa è
milanese o non lo è”. Bossi sarà stato un’allucinazione.
Ceronetti, fantasista sin da ragazzo, si
propose da Torino corrispondente alla “Gazzetta del Sud”, racconta a Cazzullo
in “I ragazzi di via Po”, “che si stampa a Messina. Mi ero presentato come
esperto di Sudamerica, in quanto figlio di padre italiano e madre india,
discendente dei Bororo del Paranà, una tribù studiata da Lévi-Strauss. Mi
smascherarono subito, ma continuarono a pubblicare i miei pezzi”. Fosse successo l’inverso, che un
ragazzo di Messina si fosse proposto non alla “Stampa” ma alla “Gazzetta del
popolo”, o altro piccolo giornale torinese?
La non
appartenenza
“Unbelonging”,
la non appartenenza, dopo quasi mezzo secolo di “radici”, rovescia le
identità: non la persistenza, non i caratteri originari, ma la varietà e i
caratteri acquisiti privilegia. Col tempo, con l’esperienza, con gli eventi. “Unbelonging” essendo da intendersi non come il disadattato, misfit, ma come il non appartenente: un’esistenza di esperienze e
caratteri plurimi, di mentalità e anche di linguaggio.
Le radici si sono affermate col successo del libro
di Alex Haley e dell’omonima serie tv quarant’anni fa. Rivoluzionari per l’America,
una grande paese fin’allora prevalentemente nomade, se si escludeva il Nord-Est,
il New England, la vecchia-nuova Inghilterra. Ma si radicavano, è il caso di
dirlo, un una affermata tradizione di pensiero. Di cui era stata la summa “L’enracinement”,
il saggio che Simone Weil scrisse a Londra nel 1943 e fu pubblicato nel
dopoguerra – in italiano come “La prima radice”. Perfino esclusivo – troppo, a
parere di molti, al limite del razzismo: nella passione della guerra, del
nemico invadente, riduceva l’esistenza alle sue radici tradizionali,
corroborate dal passato. Come modo mentale di un gruppo umano anche numeroso ma
ristretto all’Europa, e più al Sud Europa. L’unbelonging si propone in un quadro sociobiologico che
privilegia di nuovo l’innesto: il meticciato, la misgenation. Anche se l’esito personale, prima generazione, è più
spesso, e non può non essere, il disadattamento: di chi vive tra due mondi e
con due lingue, ma con l’impressione di non possedere né l’uno\a né l’altro\a,
confuso.
La categoria è stata elaborata in ambito
letterario. Per gli scrittori e artisti che con la patria, o luogo di nascita,
perdono anche la lingua e la cultura. Indossandone un’altra: un fenomeno molto
cospicuo in Francia e in Inghilterra da molti decenni, già nel secondo Novecento,
e ora esteso anche in Germania e in Italia. È il paradigma, in senso evocativo ma
anche in senso proprio, dell’emigrato intellettuale del Sud, non per bisogno ma
per curiosità o vocazione. Che è chiamato a indossare panni non suoi e a riconoscervisi.
Sia alla partenza, nel mondo nuovo di trasferimento, sia nell’eventuale
ritorno, estraneo al vecchio mondo, di chi è rimasto – e anche degli altri che
fossero partiti, per altre esperienze.
L’accumulo delle esperienze è esercizio arduo.
Cosa
nostra è il governo
Gli economisti Alberto Alesina (Harvard),
Salvatore Piccolo (Cattolica Milano) e Paolo Pinotti (Bocconi) pubblicano uno studio,
“Organized crime, violence, and politics”, sugli omicidi degli amministratori
locali negli ultimi quarant’anni, 1974-12013
I numeri sono significativi solo in tre regioni,
Sicilia, 39, Campania, 35, e Calabria, 30. Che non hanno speciale propensione
per gli omicidi, malgrado le metastasi mafiose, ma per quelli degli amministratori
locali sì. Altrove i numeri scendono molto: 7 in Sardegna, 6 in Lombardia e in Puglia,
3 nel Lazio, due o uno nelle restanti regioni, zero nelle Marche e in Emilia
Romagna.
I numeri in sé sono già una conferma che le
mafie pesano molto sulla politica. Ma di più vanno in questo senso le indicazioni
che gli studiosi traggono dal “dopo”. Cioè dopo una campagna elettorale con
morti, come dopo Portella della Ginestra, la strage di lavoratori del Primo
Maggio 1947 da parte di “elementi reazionari in combutta con mafiosi”, secondo
la relazione dei Carabinieri, cioè di Salvatore Giuliano, autore della strage
con la sua banda. “Dopo” si parla molto meno di mafia, negli atti pubblici,
consigli comunali, commissioni parlamentari, e i partiti antimafia riducono
drasticamente i voti.
La donna
del Sud – o il paradiso delle donne non è al Nord
Nuto
Revelli è sorpreso dalle donne che incontra nella sua inchiesta “L’anello
forte” quarant’anni fa, mogli per procura dei contadini piemontesi che nessuno
voleva più – le ragazze da marito della provincia subappenninica preferivano la
fabbrica e la città – nei cosiddetti “matrimoni
misti”: “La donna del Sud è animata da una grande carica di rivincita sociale”,
conclude il centinaio di pagine di presentazione della ricerca: “È viva,
ambiziosa, intraprendente. Ha accettato e subìto tutti gli inconvenienti
imposti dalla coabitazione” con suocere,
cognate, cognati. “Ha svecchiato l’ambiente, ha preteso un’abitazione civile
più per i figli che per se stessa”. E non si meraviglia che tutte vogliano
tornare: “A tutte le mie testimoni ho rivolto questa domanda: «Sarebbe disposta
a ricominciare dall’inizio, a rivivere l’esperienza che l’ha portata al Nord?»
. Poche, ma proprio poche, mi hanno risposto affermativamente con un «sì»
schietto!”
La storica Anna Rossi-Doria lo rileva nella postfazione
all’edizione tascabile della ricerca: la subalternità della donna nelle campagne piemontesi
di Alba è minore nei “matrimoni misti”. Le donne venute dal Sud sono variamente
le più indipendenti, benché handicappate dalla lingua, dall’estraneità, spesso
dalla scarsa alfabetizzazione. Hanno anche un orizzonte familiare più aperto,
meno cupamente chiuso nella fatica quotidiana: la famiglia, la natura, le relazioni
sociali.
Nuto Revelli è – era quarant’anni fa - ottimista
sull’integrazione: “Se dovessi tentare un bilancio dei «matrimoni misti» non esiterei
a dire che è positivo. Su dieci matrimoni, sei sono riusciti, tre più o meno
resistono, uno è fallito. I «matrimoni misti» hanno ringiovanito il nostro mondo
contadino, dove un male peggiore della fillossera”, l’abbandono, “aveva spento
ogni speranza”. Con un ma: “Ma il mio ottimismo si ridimensiona se includo nel
bilancio il prezzo altissimo pagato dalle donne del Meridione. Ancora una volta
è il nostro Nord che ha stravinto!”.
Un effetto localizzato – ma forse impropriamente
– è che il nesso-divaricazione Nord-Sud si ripercuote in Piemonte - oltre che negli
assetti familiari, dei “matrimoni misti” quasi da colonia - nel rapporto
campagna-industria. Nel Piemonte industriale la campagna quarant’anni fa era
arretrata, e per lo più povera. Prima di diventare ricca.
È un bilancio positivo da tutti i punti di
vista, quello di Revelli in Piemonte a metà degli anni 1970. Dell donne calabresi
o campane trapiantate come spose. Senza complessi, specie non da
parte dei campagnoli piemontesi. Il
complesso è venuto dopo, col razzismo leghista, prima implicito nel
lombardo-veneto, poi esplicito.
E non c’è il rifiuto del Sud, l’odio-di-sé. Tutte
le intervistate rivalutano i paesi e i luoghi d’origine, al di là della
nostalgia, anche le meglio sistemate. Tengono i contatti con casa. Non rifiutano
le origini e anzi le vantano. La più giovane, Maria Carmela Morano, di Gerace,
34 anni, una figlia e una situazione solida malgrado la fatica: “Io partirei anche
stasera per andare a vivere in Calabria”. “Adesso il mio paese è bellissimo”, le
fa eco Maria, che viene dalla Campania. Carmela, “nata in Calabria,”, anche lei
di 34 anni, analfabeta, già vedova, deve lottare con la suocera e le cognate
per difendere i due figli, “sennò loro vendono la terra e restiamo senza
niente” – “se non avessi avuto i due bambini sarei tornata in Calabria”.
La
condizione femminile era peggiore al Sud? Secondo le interessate no, ma anche leggendo
Revelli. “Quando ero ragazza mio fratello pretendeva che non parlassi con
nessuno, era geloso”, questa una delle tante (centinaia) di testimonianze di
contadine delle Langhe che Revelli ha raccolto: “Mi faceva picchiare da mia
madre se parlavo con un giovane, ed io che stavo senza mangiare pur di andare a
ballare tanto che mi piaceva… Ma poi piangevo sempre, e Rosetta dell’osteria mi
ha detto: «Io se ti vuoi sposare c’è uno che le piaci». Allora mi ha fatta
incontrare con lui, uno che non osava parlare. Rosetta mi ha chiesto: «Allora,
ti piace?» «Mah», le ho risposto. In otto giorni ci siamo presi e sposati. Io
ho pensato: per stare lì a farmi picchiare da mia madre e mio fratello tanto
vale che mi sposi”.
leuzzi@antiit.eu
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