Un
memorabile “viaggio in America” – non è Tocqueville, ma è altrettanto
intelligente durevole. Che Calvino, partito per un anno sabbatico (spesato dalla
Fondazione Ford, con Arrabal, Hugo Claus e Claude Ollier) col proposito di non
scrivere l’ennesimo “libro sull’America”, stese rapidamente al ritorno, e poi
bloccò in secondo bozze, incerto. Anzi no, convinto, scriverà poco prima di
morire a Luca Baranelli, che fosse “troppo modesto come opera letteraria e non
abbastanza originale come reportage giornalistico”. Un altro mondo, un’altra
Italia.
L’America
di Calvino è più ampia e diffusa. Dispersa in un centinaio di pagine confluite
postume in “Eremita a Parigi”, e in varie corrispondenze per periodici e
riviste. Questa è la monografia bocciata nel 1962 al “visto si stampi”. Una
sorpresa dietro l’altra, ancora oggi: la teocrazia
americana vs. il politeismo
europeo, le single di New York, i pregi e difetti dei talk show (“Open End”
andava a esaurimento, anche alle due di notte), Boston cattolicizzata, dal
“duro cattolicesimo irlandese-americano”, il sindacato forte che seleziona gli
iscritti, scaricatori o spogliarelliste, come un’azienda, il culto del denaro
passato dall’accumulo al consumo, alla dispersione. E Wall Street già
“elettronica”, o l’“Orfeo negro” - il razzismo antirazzista che Sartre e
Senghor venivano elaborando a Parigi in parallelo con le indipendenze africane.
Nonché le impressioni d’autore. Manhattan “elettrica”, o lo snobismo di “noi villager”, i residenti del Greenwich
Village. Martin Luther King e Albernathy visti a Montgomery, in Alabama, nei
giorni della rivolta nel 1960, come leader soprattutto sobri: dubbiosi,
calibrati in ogni mossa. La lista sarebbe lunga dei pezzi di bravura.
Anche
come libro di viaggio, queste sue annotazioni si comparano molto favorevolmente
con i similari italiani – non una grande tradizione, il libro di viaggio non è
nelle corde italiche. Sembra Chatwin e Burton insieme, la curiosità umana e
quella culturale. Anche nelle idiosincrasie: non sa – sa di non sapere – parlare
dei beatnik, né del razzismo. Ma con un limite formidabile, quando deve fare
atto di contrizione al Pci, benché dissidente: il fecondissimo
costituzionalismo americano, la guerra civile contro il razzismo, il New Deal
di Roosevelt ridice a mezza pagina, in toni liquidatori, di Kennedy neppure il
nome – dovevano essere tempi duri per la cultura italiana. Non manca chi gli
dice che “l’America passa direttamente dalla barbarie alla decadenza”. La terra dell’“oblio dei rimorsi” – ferina?
Lo
scrittore Calvino comunque sfugge alla morsa. Troppo curioso. Dimezzata, la sua
escursione sarebbe un piccolo capolavoro – il re del levare qui si ripete
spesso. Ma sempre invoglia.
Al ritorno incontra a Parigi, casualmente, al bistrot Sartre, che gli parla molto, di sé. Un’altra storia. Non migliore.
Italo
Calvino, Un ottimista in America
(1959-1960), Oscar, pp. 237, ill., € 15Al ritorno incontra a Parigi, casualmente, al bistrot Sartre, che gli parla molto, di sé. Un’altra storia. Non migliore.
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