lunedì 25 aprile 2016

Derrida o dell’elusività

La Russia non ha lasciato nessuno indifferente: o pro o contro. Quella degli zar come quella di Stalin. E anche quella di Breznev, e poi di Gorbacev – Elstin e Putin non ispirano più. Derrida fa eccezione: questo suo breve “Ritorno da Mosca” (una sessantina di pagine, meno della metà del libro, che è in realtà un “Omaggio a Derrida” da parte di Vincenzo Vitiello, con contributi dello stesso curatore, e di Ferraris, Resta, Rovatti, Sini, Vattimo) si segnala per  una, a questo punto caratteristica, elusività politica.
Derrida non sa che dirne, anche se è a Mosca al momento topico della caduta del sovietismo. Cioè, saprebbe bene che dirne , come tutti, ma lo evita. Si riserva il giudizio – come già per alcune evidenti manifestazioni naziste di Heidegger, nelle opere e  nelle parole, da lui peraltro evidenziate. Il filosofo come Mussolini – qui non si fa politica, si lavora? Ma, certo, se uno non ha coraggio non gli se ne può fare una colpa.
Questo “Ritorno” è in realtà l’anamnesi (decostruzione) del “viaggio a Mosca” come genere, quasi, letterario.  Ottima idea, che però era già stata messa a frutto, e con più perspicacia, da Paul Hollander, “Pellegrini politici”. Derrida peraltro si limita a due viaggi celebri, quello di Gide, critico dello stalinismo, e quello di Benjamin – evitando per di più la nota romanzesca dell’“angelo della storia”, che non vide lo stalinismo perché era innamorato, perso, di una stalinista. I filosofi meglio a casa?
Jacques Derrida, Ritorno da Mosca

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