L’Opec non può più governare i prezzi del
petrolio. Non all’aumento, può solo attutirne la caduta. È l’esito della
riunione straordinaria a Doha nel Qatar, che ha sancito l’impotenza dell’organizzazione
dei tredici paesi esportatori di petrolio dell’ex Terzo mondo. E non, come si è
detto, per l’ostilità tra Iran e Arabia Saudita, che viene dai tempi remoti dello
scià, quindi da mezzo secolo. Ma perché i tredici non sono più i monopolisti
del mercato: possono consolidare le quotazioni del greggio solo in accordo con
i paesi extra Opec.
L’accordo con i paesi extra Opec è però
impossibile. È un’idea di Daniel Yergin, il maggior economista del settore, ma
irrealizzabile, per il semplice fatto che il maggior produttore di petrolio e
gas fuori dell’Opec – uno dei maggiori, con la Russia - sono gli Usa, e gli Usa
non possono far parte di un accordo di cartello. Russia e Usa eguagliano ognuno
la produzione dell’Arabia Saudita – la raddoppiano se si tiene conto del gas,
una fonte di energia per molte applicazioni sostitutiva del greggio. E altri
produttori sono cresciuti: Canada, Cina, Kazakistan, Norvegia, Colombia,
Azerbaigian - Egitto, Turkmenistan, Mozambico e altri per il gas.
Un altro motivo dell’impotenza è nell’Arabia
Saudita. Il reame è teoricamente sempre in grado di terremotare il mercato, con
le sue enormi riserve di idrocarburi a buon mercato. Come nel 1973, quando
impose l’embargo all’esportazione di petrolio per due mesi, triplicando di
colpo i prezzi. Ma allora poté farlo perché lo scià era d’accordo, anzi su sua
iniziativa. E oggi non è più il paese polveroso, senza luce elettrica e senza
strade, che era quarant’anni fa: è una potenza regionale, con una spesa
militare enorme, e con impegni sociali e per infrastrutture che non può sgonfiare.
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