Dottrina Obama – Il Medio
Oriente non è più prioritario per gli Usa, secondo Obama. Gli Usa devono darsi
delle priorità di politica internazionale, e difendere le zone d’influenza là
dove possono farlo con successo, senza invischiarsi in conflitti “che
dissanguano la credibilità e la potenza degli Stati Uniti”. Questo il nodo della
“Dottrina Obama”, la sintesi delle posizioni del presidente Usa in politica
estera da lui affidate a Jeffrey Goldberg, col titolo “The Obama Doctrine”, sul
mensile “The Atlantic” di aprile. È la “sindrome Vietnam”, non menzionata nel
saggio, rinverdita recentemente da Henry Kissinger nel voluminoso “L’ordine
mondiale”: gli Usa combattono da quindici anni una guerra in Medio Oriente che
non riescono a portare a conclusione.
Goldberg
schematizza in dieci punti la posizione di Obama. Con la revisione
presidenziale, di Benjamin Rhodes, del Consiglio Nazionale di Sicurezza (Nsa), redattore
dei discorsi di politica estera di Obama, e dello stesso presidente che ha
riletto il testo:
1.
Orgoglioso di non ave colpito Assad nel 2013 (dopo l’uso dei gas nervini alla
periferia di Damasco).
2.
È necessario spostare l’asse degli
interessi Usa dal Medio Oriente all’Asia e altre regioni.
2.
L’Ucraina sarà sempre vulnerabile all’influenza russa.
4.
Orgoglioso di aver contrastato John Kerry e la retorica degli attacchi militari
– in realtà di aver contrastato il Pentagono.
5.
L’Arabia Saudita deve condividere il Medio Oriente con l’Iran, come sub-potenze
stabilizzatrici.
6.
L’Is è il Joker dei fumetti – il genio del male di Batman, il killer inafferrabile,
esperto di esplosivi, torturatore, manipolatore, resistente a ogni attacco…
7.
Putin “non è completamente stupido”.
8.
Francia e Gran Bretagna hanno creato un pasticcio in Libia.
9.
L’Is non è una minaccia esistenziale, il mutamento climatico lo è.
10.Le lezioni di Netanyahu lo indispettiscono.
10.Le lezioni di Netanyahu lo indispettiscono.
Nulla
di eccezionale, eccetto che su un punto: il riaggiustamento delle priorità
americane, cominciando dal parziale disimpegno nel Medio Oriente, regione
ingovernabile. Alla critica
dell’establishment di Washington, che gli rimprovera il declino della potenza
Usa, Obama obietta che “il Medio Oriente non è più terribilmente importante per
gli interessi americani”. In subordine aggiunge che, “seppure il Medio Oriente
fosse di straordinaria importanza, c’è poco che il presidente americano possa
fare per renderlo un posto migliore”. Il riferimento qui è a Netanyahu, il
primo ministro israeliano, ch praticamente ha estromesso Obama da qualsiasi
coinvolgimento nella questione arabo-israeliana. Il presupposto è che “il mondo
non può permettersi di vedere la potenza americana indebolita”, come sta
avvenendo da un quindicennio appunto in Medio Oriente.
In
realtà, il senso di tutta la “Dottrina Obama” è questo: non un
ridimensionamento dell’influenza americana ma un riposizionamento. Col fine peraltro
di riacquistare credibilità, cioè di rafforzare l’influenza stessa. Eccettuato
il Medio Oriente, non c’è regione al mondo o problema che Obama ritenga
estranei agli interessi americani.
Easter Rising – La rivoluzione più
fallimentare sarà stata la più proficua? È quello che è successo a Dublino un secolo
fa, nella rivolta della settimana di Pasqua del 1916, tra il 24 e il 30 aprile -
le due Pasque a un secolo di distanza sono temporalmente speculari, una delle più
anticipate quest’anno, una delle più ritardate un secolo fa. Organizzata male, anzi non
organizzata, e domata facilmente, anche se a costo di molte vittime e molte
macerie – gli inglesi, contro cui l’Irlanda si rivoltava, avevano molti cannoni
in città. I nazionalisti irlandesi pensavano di trovarsi di fronte un nemico
indebolito, impegnato com’era nella guerra sul continente. E agirono d’accordo
con la nemica Germania, che mandò una nave piena di armi. Ma non
riuscirono nemmeno a sbarcare le armi. E avevano trascurato che con gli inglesi
combattevano 300 mila giovani irlandesi, con famiglie numerose in città e nel
paese.
La
rivolta si svolse quindi nell’indifferenza del popolo, nelle campagne e anche in
città. A Dublino, come vide e raccontò
James Stephens, lo scrittore stimato da Joyce, che pensò perfino di coinvolgerlo
nella continuazione di “Finnegas Wake”, opera sempre in progress, le folle si impegnarono ad assaltare le pasticcerie,
ben rifornite per le feste. Ma la rivolta fallimentare impose il principio
dell’indipendenza dell’Irlanda, che non tardò, almeno per una parte.
Germania
Dai
Sudeti al Paraguay e al Volga ha mantenuto un’identità forte attraverso i secoli.
Non alla maniera di altre emigrazioni, magari più di massa di quelle tedesche,
per esempio degli italiani, che perpetuano gli usi (alimentari, parentali,
religiosi) e la lingua per un paio di generazioni, per un moto naturale di
resistenza, ma in modo razziale. Per inbreeding,
lingua, folklore, sempre antagonizzando le popolazioni presso le quali si sono
trasferiti. Adesso in subordine alla grande immigrazione, il recupero dei
“tedeschi nazionali” è stato forte durante la prima fase della Repubblica
Federale, con vasti programmi di recupero e reinsediamento.
Quella
tedesca è una diaspora – un altro dei tanti modi di essere e argomentare che
avvicina semmai i tedeschi agli ebrei: il tribalismo.
È
tedesco pure Woody Allen, prussiano: di nome fa Königsberg, la città di Kant –
Allan Königsberg.
Imprese pubbliche – Si comparano
in modo favorevole – estremamente favorevole – col mercato liberalizzato e privatizzato.
Sia come gestione, sia come livello di corruzione politica (sottogoverno): la
protezione dei media e della giudicatura, di cui gode il mercato privatizzato,
non può nascondere i fatti. La deriva di Telecom rispetto alla Sip-Stet. I rincari
e i disservizi dell’elettricità privatizzata. Le banche Iri, prima e dopo: non
c’è comparazione possibile. Le infrastrutture del Sud, cui l’Iri provvedeva per
il 40 per cento dei suoi investimenti, oltre alla Cassa del mezzogiorno, ferme a
venticinque anni fa. Gli scampoli di Sme, un colosso alimentare frantumato
e svenduto, in una serie di marchi che mettono il cappello dell’italianità su produzioni eccentriche – un cavallo di Troia a molte teste contro l’agroindustria italiana.
I ritardi di Autostrade: quasi trent’anni per la “variante di valico”
Bologna-Firenze, la tratta Orte-Firenze ancora a doppia corsia stretta, idem la
Firenze-Mare. L’interruzione della cablatura che Stet aveva avviato col progetto
Proteo, che avrebbe proiettato l’Italia all’avanguardia nella comunicazione
elettronica – il progetto viene ripreso oggi da Enel, che però è aspramente
avversato dai soggetti privati..
Guardando
alle privatizzazioni, dopo un quarto di secolo, si trovano soprattutto e ovunque
macerie. Gli unici che ne profittano sono le “banche” d’affari: affaristi e
società di affaristi che comprano e vendono. Che sono poi gli stessi che fanno
l’informazione, tutta piegata a loro favore. senza mai un dubbio. Per non dire
dei giudici. Tutti pagano tangenti in certi mercati, specie quelli arabi e
asiatici: la mediazione è inevitabile. Ma solo quelle delle imprese ancora
pubbliche vengono perseguite dai giudici italiani - quasi sempre su denunce ascrivibili a interessi stranieri, concorrenti e\o servizi segreti. Resistono
i mercati esteri che l’Eni aveva aperto negli anni 1950, Egitto e Russia nel
1955, Iran nel 1957 – con la Libia dopo il golpe di Gheddafi, 1969: hanno
ancora l’Italia come primo, o tra i primi, partner economici. Ma con sempre
maggiori difficoltà. Gli interessi puntati a minare queste relazioni trovano
continui echi nei media e nelle Procure italiane, distruttivi senza ragione.
Sul
lato corruzione organica, o sottogoverno, l’elenco dei disastri privati è interminabile. Il più
sintomatico è il caso Sip-Telecom: una serie di favori a questo e quell’interesse monopolistico,
Agnelli, Colaninno, Tronchetti Provera, sotto la regia di Cuccia, il padrino di
questo malaffare, e infine un gruppo abbandonato, spolpato, alle banche, mentre il personale,
presto dimezzato, ora dovrà ridursi a un terzo e forse a un quarto. E non è tutto: molto più che a favore dei “salotti buoni”,
lo smembramento e la liberalizzazione della grandi imprese pubbliche si
sono fatti a beneficio delle fauci inesauste degli interessi politici locali.
Gli stessi che oggi, per fare un esempio paradigmatico, sullo smaltimento dei
rifiuti, sulla riconversione di Bagnoli, sulla potabilizzazione dell’acqua, sul
risanamento dei quartieri, rivendica il sindaco-tipo, il napoletano De Magistris,
senza averne la capacità e nemmeno la volontà, giusto per governare gli appalti
relativi. L’appropriazione degli interessi pubblici da parte del sottogoverno
locale è fortissima soprattutto nella sanità – dove oggi il giudice Cantore
scopre tangenti per seimila miliardi l’anno – e l’ambiente, i due maggiori
canali della spesa pubblica.
Restano
fuori dal ludibrio, tra i grandi gruppi privatizzati, Eni, Enel e Finmeccanica.
Ma perché sono fintamente privatizzati: operano sul mercato – su mercati anzi
difficili, molto internazionali, molto competitivi - ma in una logica ancora di
interesse pubblico: produttività, investimenti oculati e quindi creazione e non
distruzione di lavoro e reddito, limitazione del sottogoverno, attenzione alle appropriazioni indebite – la corruzione è impossibilitata dagli audit, e comunque è
ridotta, impercettibile rispetto ai flussi del privato sottogoverno.
Presidenziali Usa – I poteri del
presidente Usa sono decisivi e anzi totalitari per quanto concerne la politica
estera. Mentre la politica interna resta terreno prevalentemente parlamentare, condizionato
e deciso dal Congresso e dagli Stati dell’Unione. Ma le candidature nella lunga
campagna elettorale si definiscono esclusivamente in base alle questioni
interne agli Usa – la conoscenza dei fatti esterni è ridotta alla curiosità e
allo scherzo.
Turchia – Ritorna
di prepotenza ottomana. Dalla Siria fino all’Oman, e all’Egitto. È parte attiva
dei conflitti civili dentro la Siria. In Iraq combatte i curdi indipendentisti della
regione di Mossul e Kirkuk. In entrambi i paesi ha tenuto in vita, e tuttora
usa, l’Is. Aprirà una base militare nel Qatar, secondo un accordo firmato a
dicembre, forte di tremila soldati – un accordo simbolico, per i cent’anni dal
1915, quando le truppe ottomane chiudevano a Doha, la capitale dell’emirato, la
loro presenza nel Golfo Persico. E si presenta esportatrice di armi nella
regione. L’associazione delle industrie belliche turche, Musiad, ha organizzato
una fiera a settembre nel Qatar e altre ha in programma nel Kuwait e in Arabia
Saudita. I paesi arabi del Golfo hanno una spesa militare in forte espansione,
anche negli ultimi due anni malgrado il calo del prezzo del petrolio: La spesa per
la difesa dei paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo è aumentata del 66
per cento nei cinque anni dal 2010, da 74,7 a 124,1 miliardi di dollari. In
particolare per gli armamenti, la spesa complessiva dal 2007 è stata secondo il
Consiglio di 135 miliardi.
In questa ottica va visto il deterioramento improvviso delle
relazioni con Israele, che erano state invece strette in tutto il dopoguerra. E l’offerta
di sostegno diplomatico e collaborazione militare all’Egitto – prima di Al-Sisi,
è vero, con la presidenza dei fratelli Mussulmani (Al-Sisi è nemico giurato
dell’Is).
La riottomanizzazione
della Turchia va di pari passo, curiosamente, con la sua europeizzazione. Se
andrà a effetto l’accordo per gli immigrati con l’Unione Europea di fine marzo. L’accordo
infatti affida alla Turchia la regolazione degli afflussi di immigrati ai vari
Paesi europei secondo il vecchio accordo delle quote, una responsabilità
enorme. Accoglie di fatto la Turchia nel sistema di Schengen, o della libera
circolazione, abolendo i visti. E riavvia il negoziato per l’adesione della Turchia alla Ue
quale paese membro. Tre esiti di enorme importanza. Si capisce il potere che il
presidente Erdogan ha accumulato all’interno del Paese, per effetto di
questa duplice proiezione internazionale, in termini di influenza e di orgoglio
nazionale. Fino a spingerlo alla semi guerra civile contro i curdi turchi, e
alla chiusura dei giornali di opposizione, con l’accusa di tradimento.
Il mancato
riconoscimento delle minoranze e la violenza contro la libertà d’opinione dovrebbero
precludere a questa Turchia l’accesso a Schengen, nonché l’ammissione alla Ue.
Ma non è detto.
astolfo@antiit.eu
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