La trama è più lunga, si può
dire, del romanzo. Il fatto dirimente è questo: la lotta fra gli Stati per la
ricerca del punto fijo ovvero dell’antimeridiano di Greenwich,
“il nostro centottantesimo meridiano”: l’antipodo di Greenwich, “la linea oltre
la quale il tempo va indietro” – cioè dove il tempo non c’è: non è ieri e non è
oggi. Un colpo d’ingegno che il lettore paga a caro prezzo. Al principio con
l’assedio di Casale Monferrato, “la fortezza più importante dell’Italia del
Nord”, 1629, nel quale si distingue il Roberto-Umberto, protagonista, testimone
e narratore della plurima vicenda. Giusto per immergere il romanzo in una
temperie nazionale, non perché sia necessario. L’assedio di Casale è un topos del
Seicento: è quello dei “Promessi sposi”, Giovanni Maria
Tamburini ne ha fatto una battaglia geometrica per la Sala dei Ricami Indiani
di palazzo Colonna a Roma sotto il Quirinale. Eco ne fa volutamente un
calco. Un altro, uno dei tanti, lo fa in un attraversamento dei Pirenei, da
Giovambattista Marino. Anche l’isola che non c’è è materia di racconti
d’appendice, da più secoli, e fino a Edoardo Bennato e Johnny Depp – una
trattazione è in Gozzano, “La più bella”: l’Infante di Spagna, ricevuta
l’Isola-non-Trovava in dono da suo cugino il re del Portogallo, su bolla del
papa “in gotico latino”, fa vela per cercarla, ma “l’isola non c’era”…. Per
finire con l’isola che non c’è, che Roberto deve raggiungere non sapendo
nuotare - senza averne peraltro il tempo poiché l’isola è nel tempo che non
c’è. E qui siamo finiti nel labirinto, altro topos che sembra
piacere, nei mari del Sud, in forma di nave cimitero. Nel mezzo con repertori
interminabili, di “imprese” (“Simboli, Cenni”, etc., per sei righe – e manca
l’Aforisma), colombe, l’Alexipharmaca, i segni alfabetici, i tanti “argomenti”
contro il moto terrestre. Digressioni di ogni tipo, dai repertori che Eco,
bibliofilo incontinente, predilige. Una per tutte, la storia del cane utilizzato
per determinare la longitudine in assenza di un riferimento. S’imbarca un cane
ferito alla partenza, dopo aver urticato il punteruolo con la “polvere di simpatia”,
la polvere avrebbe “urtato” il cane ogni giorno alla stessa ora, il cane avrebbe
reagito gemendo, e così si poteva sapere sulla nave in navigazione che ora era
in quel momento al punto di imbarco, e derivare la longitudine. Rimedio fantasioso, naturalmente, ma non è
finita. A esso Eco sardonico oppone analogo meccanismo fantasioso, ma
scientifico, proposto da Galileo (in una lettera a Lorenzo Realio, 1637), sempre
per calcolare l’introvabile longitudine.
In filigrana c’è il romanzo del fratello Ferrante, che Roberto a
tratti si propone di scrivere. Un fratello maggiore che forse non è esistito,
proiezione del padre non amato dal protagonista narratore, proprio perché
prediligeva il primogenito. Oppure semplicemente l’“oggetto di fantasie
fanciullesche”, quelle cui indulgono i bambini soli – questa storia nella storia
si dissolve man mano che si dispiega, è solo un pretesto per massime sul
romanzo. C’è anche Galileo con lo Instrumentum Arcetricum. La
vicenda principale è il problema delle longitudini. Nel mezzo uno
scemenzario. Anzi, lo Scemenzario di uno scemenzario, che è la Conoscenza. La
“Vertigine della lista” sarà poi una delle ultime compilazioni di Eco, che non
riusciva a liberarsene: cominciando
dal “catalogo delle navi” dell’“Iliade” e finendo con Calvino e Borges, vi
repertorierà una lunga serie di elenchi di cose, più o meno ipotetiche - un
tentativo, dirà, di fissare e padroneggiare il mondo, compresa la stessa
libreria. Ma l’Autore non sembra divertito, e il lettore non vede
perché. Un polpettone. Illeggibile ai più, incommestibile ai pochi – e
tuttavia, riedito alla vigilia di Pasqua, subito esaurito.
Una parodia, sempre, del romanzo. Eco è venuto alla letteratura,
nel Gruppo 63, con la “fine del romanzo”, anzi la Fine del Romanzo, come usava
nel Seicento. Qui mette in scena un romanzo a più piani. Ma da disappetente:
alla fine pure l’autore sembra arrendersi. Anche il piano storico, il più
semplice, risolve in una tela di fondo forse veridica, ma piuttosto
imbrogliata. Il materialismo e l’incredulità si scontrano col gesuitismo senza
soluzione: Roberto-Umberto è all’inizio con Saint-Savin, un pirroniano
libertino che pone il dissidio insolubile tra creazione e eternità (“la prima
qualità di ogni uomo è il disprezzo della religione”), e alla fine con un
vecchio scienziato gesuita – nel mezzo con numerosi religiosi: il viaggio della
vita Roberto de la Brive fa in compagnia di religiosi, un padre Emanuele, un
cappuuccino, un carmelitano e da ultimo il gesuita scienziato Caspar
Wanderdrossel (“tordo vagante”), che sacramenta (“Un Saggio? Certamente
sì, o almeno un erudito, e un curioso sia di scienze naturali che divine. Un
esaltato? Sicuramente…”). Richelieu c’è, e anche Mazzarino (“un tal Giulio
Mazzarini, un siciliano, un plebeo romano…”), che è quelo che pone il problema
del punto fijo, ma è come non ci fossero, comparse. Galileo serve a
presentare e discutere la teoria copernicana e quella tolemaica, entrambe
“vere”. Per non dire dell’antimeridiano di Greenwich. Il
protagonista deve imparare a nuotare per cavalcare il meridiano inesistente fluttuando
“a fior d’acqua, gli occhi al cielo… su quel ciglio che separava l’oggi dal
giorno prima, al di fuori del tempo, in un eterno mezzogiorno” – questo è
“L’Itinerario Estatico Celeste”. Sempre naufrago, o sul punto di naufragare,
sempre discetta incurante, anche di Dio e della Redenzione. Ma dicendosi: “In
verità Roberto non era convinto dei suoi argomenti”.
Eco risolve il romanzo nel pastiche, nella elaborazione filologica. Nel discorso del romanzo. Dei generi e non degli autori. Senza misura, e quindi sempre irrisolto: l’ironia dissolve e non coagula – la misura giusta del pastiche sarà quella di Proust, “Pastiche et mélanges”, di prose brevi, scherzose più che affannate, di satira amichevole (fare il verso a qualcuno). Qui il pastiche è filosofico. Nel senso dell’impossibilità della filosofia, dell’inconcludenza – il protagonista che passa lunghi capitoli a imparare a nuotare è la metafora di questa conoscenza: il tempo e lo spazio, il vuoto, il Dio di Spinoza, la pluralità dei mondi. Lo è all’inizio e poi alla fine: “Il Serraglio degli stupori”, “Il Labirinto del Mondo”, “Il Cannocchiale Aristotelico”, “Le Passioni dell’Anima” sono tra i primi capitoli, “La Pluralità de Mondi”, “L’uomo al Punto”, “Itinerario Estatico Celeste” tra gli ultimi. Ma finiscono per non dire nulla poiché non risolvono nulla, non giungono mai a una conclusione.
Eco risolve il romanzo nel pastiche, nella elaborazione filologica. Nel discorso del romanzo. Dei generi e non degli autori. Senza misura, e quindi sempre irrisolto: l’ironia dissolve e non coagula – la misura giusta del pastiche sarà quella di Proust, “Pastiche et mélanges”, di prose brevi, scherzose più che affannate, di satira amichevole (fare il verso a qualcuno). Qui il pastiche è filosofico. Nel senso dell’impossibilità della filosofia, dell’inconcludenza – il protagonista che passa lunghi capitoli a imparare a nuotare è la metafora di questa conoscenza: il tempo e lo spazio, il vuoto, il Dio di Spinoza, la pluralità dei mondi. Lo è all’inizio e poi alla fine: “Il Serraglio degli stupori”, “Il Labirinto del Mondo”, “Il Cannocchiale Aristotelico”, “Le Passioni dell’Anima” sono tra i primi capitoli, “La Pluralità de Mondi”, “L’uomo al Punto”, “Itinerario Estatico Celeste” tra gli ultimi. Ma finiscono per non dire nulla poiché non risolvono nulla, non giungono mai a una conclusione.
Un sogno e una tentazione impossibili del lettore smisurato, per
di più curioso di tutto. Uno sberleffo, se Eco si è divertito. Un Calvino
diluito, e riportato indietro al Seicento, tra Barocco e Scienza, invece che
nel futuro. Un romanzo d’autore anche nel senso che è pieno di frasi famose.
Lievi: sulla gelosia, la bellezza (“la bellezza del giorno è come una bellezza
bionda, mentre la bellezza della notte è una bellezza bruna”), l’amore
(“l’assenza è all’amore come il vento al fuoco: spegne il piccolo, fa avvampare
il grande”), o piuttosto il disamore, etc. E pesanti, che però non sono un
punto fermo, da ogni ipotesi zampillando un’altra ipotesi. “Non c’è pensiero
più tremendo, specie per un filosofo, di quello del libero arbitrio”. “Nella
vita le cose accadono perché accadono, ed è solo nel Paese dei Romanzi che
sembrano accadere per qualche scopo o provvidenza”. Il bruniano (non
attribuito) “unico grande Nulla, che è la Sostanza del tutto. Regolata da una
maestosa Necessità”. Accettando e rifluendo nella quale l’uomo confluisce nello
spinoziano (non attribuito) “Amore Intellettuale di Dio”. Mentre Giuda, come
già in Caillois, è condannato a vivere “sempre nel venerdì santo”, incatenato
ai piani divini dei quali dev’essere la vittima sacrificale – “Era dunque
scritto fin dall’inizio che io fossi dannato a essere dannato”? Che sembra
irridente, e anzi blasfemo. Ma “ciò che assilla il filosofo” è “il mistero
dell’inizio” e non “la naturalezza della fine”, “la “angosciosa domanda su
quale eternità ci abbia preceduti: l’eternità della materia o l’eternità di
Dio?”
Umberto Eco, L’isola del giorno prima, Corriere della sera, pp. 476 € 9,90
Umberto Eco, L’isola del giorno prima, Corriere della sera, pp. 476 € 9,90
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