Un’antologia
storica, dalle origini a fine Novecento. Di una forma peraltro che si è poco o
nulla evoluta, se non, nel primo Novecento, col verso libero invece della
rigida prosodia sillabica 5-7-5. Con translitterazione e ideogrammi a fronte, e
una considerevole bibliografia.
Barthes, “L’impero
dei segni”, voleva la forma non evolutiva. Arena ci trova invece, da esperto
della letteratura giapponese, più di un innesto di novità, soprattutto nelle
tematiche. Barthes la dice anche una forma facile, e per questo diffusa: “Avete
il diritto, suggerisce l’haiku, di essere futile, breve, ordinario”. L’economia
non è arte facile – “si ritrova in tutte le altre sfere del’arte giapponese” -
e non è dismissibile, obietta Arena.
Il limite è forse
che non se ne può dire nulla, secondo il curatore, seppure gustandola: esprime lo yugen, un misto di “indistinto” e “misterioso”, una “vaghezza
misteriosa”. Esito “d’una cultura intrisa di buddhismo, per cui non sono le
cose a essere importanti, ma lo sfondo «vuoto» in cui si iscrivono”. Lo stesso
curatore non sa che dirne: “Ogni commento tradirebbe l’immediatezza
dell’immagine”. Anche perché “l’haiku rivela uno specchio vuoto. Si iscrive
nello spazio senza simboleggiare nulla, e senza la pretesa di avere un
significato. È un’immagine opaca, priva di riflessi”.
Ma dire
l’ineffabile, cogliere l’imponderabile - senza tuttavia adagiarsi nell’ossimoro,
il gioco di parole che la cosa dice col suo contrario – è ben dire. Una poesia
che si forma e si percepisce per immedesimazione. Col tratto semplice,
evocativo, di immagini accostate. Di logica certo paradossale: ogni cosa è
un’altra. Ma semplice e accessibile, esercitandosi sul quotidiano: dapprima
sulla natura, negli ultimi suoi praticanti anche sull’uomo (nascita, età,
malattia).
Leonardo Vittorio
Arena (a cura di), Haiku, Bur, pp.
110 € 5,90
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