I partiti che Mattei “prendeva” (pagava)
come il taxi, la morte di Mattei naturalmente, il colpo di Stato di Cefis, il
tangentone Enimont, e fino a Paolo Scaroni, o l’Eni di Berlusconi, e perfino
quello di Renzi, con le sue finte manageresse. Il repertorio c’è tutto – non è
vero che questa è “La prima inchiesta sull’Eni” come vuole il sottotitolo. Ma
manca sempre l’essenziale, cioè la verità del fatto Eni, che resta il più
robusto e capace gruppo economico italiano. E una sorta di corazzata nei mari
internazionali, che si porta dietro una vasta flottiglia nazionale, in Libia
come in Iran, in Algeria, in Nigeria e in mezza Africa, e a suo tempo in
Russia.
È vero, come dice la presentazione, che “il suo
amministratore delegato vale più del ministro degli Esteri, sul suo tavolo
passano affari miliardari, alleanze internazionali, interessi geopolitici,
questioni di sicurezza fondamentali”. Ma non si dice: meno male, altrimenti
dovremmo stare con Gentiloni, dopo la Mogherini, e magari con la Pinotti.
Peggio, si continua la vecchia frottola delle aziende pubbliche focolaio di
corruzione e incapacità, mentre sono un campione di sana gestione, pur coi loro
evidenti limiti di sottogoverno, a fronte delle frottole del mercato – del
mercato come si pratica in Italia: in banca, negli appalti, nella sanità,
nell’ambiente, nell’invadente terzo settore. L’Eni, per dirne una, ha
beneficiato di molto minore capitale pubblico che la Fiat di Gianni Agnelli e
Romiti, e l’ha ripagato, coi dividendi oltre che con la creazione di reddito.
La morte di Mattei, se anche fosse un
giallo (ma non lo è), non diminuisce e anzi accresce il ruolo e l’esperienza
dell’Eni. Per anni la sola fonte d’informazione, oltre che l’unica società
italiana operativa, nel vastissimo Terzo mondo. Dove le conoscenze, oltre che
gli affari, erano gestite da Londra, Parigi e Washington, in chiave esclusiva,
in ottica di sfruttamento, e di controllo politico. Informazione e controllo
lasciati per di più ai servizi segreti, gente di mano. Mentre un’azienda
italiana nel vasto mondo si trovava del tutto sprovveduta – chi operava
all’estero sa che ancora negli anni 1970 i diplomatici italiani erano gentiluomini
di poco senno. Cefis si faceva mandare i mattinali dei servizi segreti, ma
perché non c’erano altre fonti di informazioni non pregiudicate da interessi
stranieri. E quando creò con Marcello Colitti un servizio di studi sui paesi di
interesse (per la Russia si avvaleva dei maggiori studiosi britannici, a
partire da D.H.Carr), furono le sue relazioni e tenere informato il ministero
degli Esteri per un decennio.
La lettura è quella demonica di Pasolini
in “Petrolio”, storione di nessuna verità – feroce, anzitutto dello scrittore
con se stesso, e incontinente. Mentre una vicenda che Greco e Oddo si sono
risparmiati sarebbe stata invece ben più succulenta che non le escandescenze di
Pasolini. Una storia recente, del signor Bruno Mentasti, coetaneo e amico di Berlusconi,
mandato a Mosca a trafficare gas col colosso Gazprom invece dell’Eni. Gazprom,
per dire, ha consulenti del calibro di Schröder, ex cancelliere tedesco, ed è
esente in Germania dalle sanzioni contro la Russia, addirittura vi ha
raddoppiato le esportazioni di gas russo vigendo le sanzioni. Un “affare”
voluto dalle donne più che dagli uomini, dalla signora Mentasti e dalla moglie
di Berlusconi – che poi la stessa signora Mentasti, svanito l’affare del
secolo, aizzò contro il marito, inducendola a confidarsi con “Repubblica” e a
mettere Berlusconi nelle mani della giudice Boccassini col bunga bunga, come
magnaccia, roba che nemmeno le “contesse” di Mussolini.
Prevale la lettura milanese, prima che
pasoliniana, delle aziende pubbliche: che tutto quello su cui non si possono
mettere le mani è da distruggere. Manca anche in questa voluminosa trattazione
la lunga cattivissima guerra d Cuccia all’Eni, fino ad accollargli la
Montedison stracotta, e solo lui sapeva quanto.
Si prenda il vero nodo dell’Eni: che la
politica l’ha fatta, e la fa, piuttosto che subirla. Greco e Oddo non mancano
di denunciarlo, ma alla sommatoria è un fatto positivo. Più che positivo, per
le fortune del gruppo, un dei pochi italiani di grandi dimensioni, con una
forte capitalizzazione, patrimoniale e di mercato. Gli stessi autori lo
riconoscono indirettamente quando denunciano le tentate manomissioni di Berlusconi
con la presidenza Scaroni (quella di Mentasti…), recependo una nota critica di
Giulio Sapelli, allora consigliere del gruppo pubblico: che gli Usa cominciarono
a “considerare l’Italia come un paese non più affidabile” quando il governo
orientò l’Eni al di là del ruolo “tradizionale” di mediazione coi paesi borderline, come la Russia e la Libia.
Tradizionale nel senso che risaliva al 1955, agli accordi per il petrolio
russo, e poi al 1957, alla rottura del monopolio delle “sette sorelle” con gli
accordi in Iran. Nonché col Gheddafi terrorista, nel ruolo di pacificazione,
almeno per quanto concerne l’Italia dopo la strage di Fiumicino, come già col
terrorismo palestinese, e poi con quello khomeinista. Il fatto è questo: una
forte supplenza dell’Eni non negativa e anzi positiva negli affari
internazionali. Mentre è certamente un gruppo legato alla politica, come tutti
i gruppi italiani, ma meno degli altri, e soprattutto non dipendente – se non
per marginalia.
Per il resto anche qualche luogo comune
sulla politica. Di un Eni infeudato a Fanfani, che invece ne fu rispettoso.
Mentre fu Moro che lo volle lottizzato, con la presidenza Sette nel 1975, di
una persona cioè di tratto signorile ma del tutto inadatto. O della P 2. Un
vicenda nella quale l’Eni invece si segnala per essere assente – Gelli gestiva
un dossier Eni-Libia, ma per tentare di ricattare l’Eni, cosa che evidentemente
non gli riuscì. In “virtù” della politica fallì semmai quella che avrebbe
potuto essere un’esperienza diversa e produttiva del grande business
dell’antinquinamento, che avrebbe dato all’Italia una leadership economica e
tecnologica nel settore, attraverso la Tecneco. Un progetto che la trattazione
trascura, avversato dai potentati grandi e piccoli della politica, famelici,
che vollero per sé, “privatizzato”, per la corruzione diffusa e improduttiva,
fuori da ogni coordinamento o controllo di un’agenzia tecnica, quello che si
annunciava come il più grande business
pubblico, a carico dello Stato.
Andrea Greco-Giuseppe Oddo, Lo Stato parallelo, Chiarelettere, pp.
352 € 17,50
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