Un legal thriller
romanticizzato: un amore sboccia tra cinquantenni, tra un giudice a due cifre (“non
condanna mai a meno di dieci anni”) e la rianimatrice che l’ha riportato in
vita una vita prima e ora è girata in un processo. Semplice come usa nei film
francesi, senza fronzoli, e per questo toccante. Con una punta di filosofia, la non verità dei
simulacri di giustizia confrontandosi inevibabilmnte
nello spettatore coi moti liberi del cuore.
Questo è tutto. Su un
backstage da palazzo di Giustizia – rancori, invidie, cattiverie, pettegolezzi,
gerarchismo. Nonché di vite solitarie. E un esilarante quadro in poche battute del
coacervo culturale francese nel piccolo mondo dei sei giurati, tra francesi
francesi e francesi arabi, e all’interno delle due etnie.
La maggiore
curiosità è il premio a Venezia per la migliore sceneggiatura (allo stesso
regista, Christian Vincent, a un pelo dal premio come miglior regista) e il
miglior attore, che è un segno dei tempi: la medietà è già eccezionale.
Christian Vincent, La corte
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