Adorno aveva letto i “Quaderni neri”? No, evidentemente. Ma li
aveva intercettati, da buon lettore – si era messo sulla stessa lunghezza d’onda,
da spione attento. L’editore lo ripresenta nell’edizione che nel 1998 ne hanno dato
Remo Bodei e Pietro Lauro, a trentacinque anni dal fatto, o misfatto. Ma non è
strano – “segno dei tempi”, della disattenzione - che nessun altro se ne sia
ricordato? In particolare, nessuno dei tanti commentatori dei “Quaderni neri”.
“L’ideologia tedesca contemporanea” - “Sull’ideologia tedesca” è
il sottotitolo - “evita dottrine bene afferrabili come quella liberale o
persino quella elitaria”. “Persino quella elitaria” dice che Adorno è perfido,
con Heidegger come con Jaspers, di cui “Il gergo dell’autenticità” soprattutto
tratta (in realtà il saggio è cresciuto come una critica a tutto Heidegger: “La violenza è insita”, è la conclusione, “tanto nella forma linguistica
quanto nel nucleo della filosofia di Heidegger: nella costellazione in cui essa
pone autoconservazione e morte”). Ma dice anche: “Essa è passata nel linguaggio”. Cosa è passato, cosa è
l’“autenticità”? Il detto-non detto che fa il “gergo”: del risentimento,
dell’isolamento, del revanscismo. Adorno sa di avere semplificato – questo scrive
in un’avvertenza di qualche anno posteriore al libro: “Desterà irritazione il
fatto che i passi di Jaspers e i brani di Heidegger vengono trattati sullo
stesso piano di un atteggiamento linguistico che i capiscuola presumibilmente
respingerebbero indignati”, ma “i loro pensieri filosofici mettono in luce
ciò di cui il gergo si nutre”. Non sono
capibanda ma ne spiegano i motivi. Una osmosi molto evidente, per Heidegger,
nei “Quaderni neri”.
A mezzo secolo dalla pubblicazione “Il gergo dell’autenticità” si
dimostra dunque vero?
La forma tedesca di risentimento
L’autenticità, il gergo dell’autenticità, “è nel secolo XX la
forma tedesca di «risentimento» per
eccellenza”. L’autenticità (Savinio direbbe il profondismo) è nella
Germania di dopo la guerra un Ersatz
per una coscienza critica appuntita, veramente profonda. Un “sottoprodotto della stessa modernità con
cui si vuole in rapporti di inimicizia”, rileva sardonico Adorno. Di questa fa
Heidegger il maestro concertatore e cantore, per figurazioni, cifrari, aure.
Uno che avvolge “le proprie parole come arance nella cartavelina”, finendo solo
per incarnare “la forma attuale della falsità”.
La cosa è più complessa – Adorno si concede qualche battuta, ma
poi rigira lungamente la frittata. “Il gergo, come modo di comunicazione «a
portata di mano», dà l’illusione di essere immune dalla spersonalizzata
comunicazione di massa: proprio questo lo raccomanda all’entusiastico accordo
di tutti”. Ma qui non si tratta di tutti, bensì di Heidegger, Jaspers, Husserl
in piccola misura, e molto altri, specie del cerchio di Rosenzweig. Il gergo
dell’“autenticità” finisce per annientare gli adepti, nel compiacimento
risentito: “Il gergo, che nella fenomenologia heideggeriana della chiacchiera
meritò un posto d’onore, qualifica gli adepti, secondo la loro opinione, come
persone perbene e di animo nobile, proprio come allontana il sospetto ancora
sempre vivo di sradicamento” .
Thomas Mann nel “Doktos Faustus”, pouò aggiungere Adorno, “vera e propria
cantina di Auerbach del 1945”, “ne intuì con precisa ironia la maggior parte
degli usi” . La polemica è filosofica e politica: “Nel gergo sverna felicemente
il bipolarismo tra pensiero distruttivo e costruttivo, con cui il fascismo
liquidò il pensiero critico”. Adorno se ne sentiva offeso come marxista. Da
Jaspers per esempio, “La situazione spirituale del tempo”, che mette sullo
stesso piano Marx e il razzismo - “Marxismo, psicoanalisi e teoria della
razza sono oggi i più diffusi
occultamenti dell’uomo”. Ma non fa una polemica politica, usa questi
riferimenti per dimostrarne la pochezza.
Denigrare il pensiero attraverso il
pensiero
Opportunismo? Dissimulazione? L’andamento a volte libellistico
dell’argomentazione indurrebbe al sospetto. Ma non per Adorno, gli “autentici”
vanno in buona coscienza: agitano per la massa, le mettono a disposizione
“l’antico odio antisofista”. Platone sotterrò la sofistica sotto l’onta di non
combattere la menzogna ma di rendere sospetta la verità. “L’antisofistica
tuttavia”, e più la sua deformazione “autentica”, “sfrutta la comprensione di
tali deformità del pensiero lasciato libero per denigrare il pensiero
attraverso il pensiero stesso”.
Heidegger si svolge all’insegna della “autenticità”, proclamata e
surrettizia. In “Essere e tempo”. In “Pensiero e poesia” – “volumetto di
sentenze, una via di mezzo tra (la forma) poetica e quella del frammento presocratico”.
Nei numerosi discorsi e interventi d’occasione: sono molti in effetti i passi
che “richiamano i cliché più stinti dello strapaese”. Al meglio “un cascame del
romanticismo”. Su un principio gnoseologico ricattatorio: “Heidegger non è per
nulla «incomprensibile»”, ma “si circonda del tabù secondo cui una qualunque
comprensione lo falsificherebbe subito” . Peggio: “L’irrecuperabilità di ciò
che questo pensiero vuole recuperare viene trasformata con scaltrezza nel suo
elemento proprio” . Con scaltrezza forse no, esiste anche l’ingenuità, e la
dabbenaggine, ma il fatto c’è. Per non dire della scelta politica, per quanto riservata,
del Blubo, il Blut und Boden, la
patria nazista.
Una contestazione meritevole, al di là della polemica. Sulla vita
– la riflessione – dopo la teologia: “Al pubblico viene insegnato il difficile
gioco d’equilibrio di aggiustarsi il nulla come se fosse l’Essere; di onorare
la miseria evitabile, o quantomeno riducibile, come la cosa più umana dell’immagine
dell’uomo; di rispettare l’autorità come tale a causa dell’innata insufficienza
umana”. Dopodiché l’autorità si erge senza contrappesi, nefasta: “Poiché non ha
più altra legittimazione che non sia la sua cieca e impenetrabile esistenza,
diviene radicalmente cattiva”. Il linguaggio “universalmente umano” non fa
eccezioni allo “Stato totalitario”: “Hjalmar Schacht riconobbe una volta al
Terzo Reich di essere la vera democrazia, dal momento che poteva presentare una
maggioranza così considerevole da non aver quasi bisogno di falsificare le
cifre elettorali”.
La verità che si tace
A volte persino ovvio – seppure di un ovvio che si tace. Una
filosofia che “si aggrappa al cieco destino sociale”, quello che Heidegger dice
“ha gettato” il singolo qua o là a caso, “era conforme al fascismo. Dopo la
caduta dell’economia liberale di mercato i rapporti di dominio apparvero senza
veli”. Non è per caso che “in un periodo in cui il capitalismo industriale del
Terzo Reich andava concentrandosi smisuratamente, si poterono raccontare
fanfaronate sul sangue e suolo senza essere derisi”. Con l’“autenticità”, la
smania di credere, viene peraltro la disponibilità (Zuhandenheit), o stare-a-portata-di-mano del gergo. Fino a
contestare la curiosità. Molto è da rivedere nell’etica e la politica di
Heidegger - l’antisemitismo, in lui solo di testa, fuori dall’orizzonte
quotidiano, forse non è il peggio.
Una satira, a volte, più che un trattato. Anche se di
argomentazioni solide. E un segno di malumore. Adorno mostra, secondo Kracauer,
“quanto Heidegger abbia in comune col sudiciume sotto di lui”. Mostrava, nel
1963-64, quando decise di raccogliere in un saggio e poi in un volume le
riserve che sulla “autenticità” del filosofo di Messkirch era venuto acculando
da subito, già da prima, si può dire, di “Essere e tempo”: non se ne fidava, e
i fatti gli avevano dato ragione. Qui arriva alla contumelia. Con chi non
faceva i conti con Auschwitz Adorno è cattivissimo. Non senza ragione: non si
può fare finta che nulla sia avvenuto, e dare la colpa alla tecnica.
Distinguendo peraltro la tecnica propria, buona, dalla tecnica degli altri,
cattiva – il ricordo è irresistibile (questo è mancato a Adorno) alla
considerazione che l’aereo che porta Hitler da Mussolini è storia…
Il libro è comunque ben bilanciato, in questa edizione italiana,
da Remo Bodei, In una introduzione che ha il passo del libro stesso, e “sistematizza”
sia Adrorno sia lo Heidegger di Adorno. In una chiave per molti aspetti
contemporaneistica: il saggio di Bodei potrebbe essere stato scritto dopo i
“Quaderni neri”, segno di una lettura appropriata dello steso Heidegger, in
linea con la sua propria lettura.
Bodei collega l’elaborazione del saggio, su una prima traccia di
Adorno, a uno scambio epistolare con Kracauer, che molto aveva riflettuto
sull’industria culturale - Kracauer, la cui amicizia con Adorno non subì mai
incrinature, che voleva ma non fu ammesso al cerchio degli autentici. E sul
fondamento degli “autentici” non tanto in Kierkegaard, come profusamente fa
Adorno, quanto in Rosenzweig – un aspetto che Elettra Stimlli contemporaneamente
elaborava. Un cenacolo di “intellettuali per lo più ebrei”, nota Bodei:
Rosenzweig, Buber, Rosenstcok-Huessy, allievi di Hermann Cohen, l’ultimo
kantiano, che ambivano a conciliare la tradizione ebraica con quella tedesca –
e per questo si inimicarono Gershom Scholem. Personalità di spessore: Rozenzweig
è quello della “esistenza”, Buber del “pensiero grammaticale”, e della “erfahrende Philosophie “, della
“esperienza”.
La tradizione di sartoria
Bodei in genera le prende le distanze dalla critica radicale di Adorno.
Ma aggiunge – distrattamente, quasi ovvie - due stoccate esiziali, e oggi di
moda, anzi magistrali. Heidegger che
gira in costume svevo “tradizionale” che è invece attillato e di sartoria,
fatto su misura se non modello unico, “davvero un post-modern, un «citazionista»”. E Heidegger “una figura
intellettuale che sa curare tanto la diffusione della propria imagine” – vedi
la pubblicazione oggi dei “Quaderni neri”, quando il magistero si indeboliva –
“quanto la scelta delle sue parole”. Del resto, il riesame di Heidegger è tanto
più apprezzabile (acuto) in quanto – al
contrario dell’imputazione che curiosamente gli muove Bodei – Adorno non
conosceva le lezioni friburghesi di Heidegger degli anni in cui Hitler aveva
vinto la guerra, col trionfo della “tecnica spirituale” tedesca in Francia e in
Norvegia – la Polonia non meritava menzione, o lì la “tecnica spirituale” era anche
sovietica?
Il sottotitolo,
“Sull’ideologia tedesca”, può non aver giovato al libro, per echeggiare
il vecchio titolo di Marx contro la filosofia di metà Ottocento, più che per il
dileggio degli “autentici”, il circolo di Martin Buber, coi suoi molti seguaci
di minor nome, e Jaspers con Heidegger. Adorno è quello che, sia pure mero
sociologo come lo labellò sprezzante Heidegger, meglio ha visto nel primo
Novecento tedesco. Qui, con i “Minima moralia”, e con la voluminosa ricerca”La
personalità autoritaria”, 1951, il pendant pedagogico e psicologico dello
studio storico e politico di Hannah Arendt sul totalitarismo.
Theodor W. Adorno, Il gergo
dell’autenticità, Bollati Boringhieri, pp. LXIII-127 € 16
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