Anni – Gli anni ’20, gli
anni ’30, sono americani. Nelle lettere, e anche nella storia, nella cultura:
non una continuità, un’evoluzione, una scuola di pensiero o una poetica. La
classificazione è solo possibile per strati cronologici, meglio indicati per
semplicità con la decade.
Italo
Calvino –
L’ideale aveva della “classe dirigente”. In America per un lungo sabbatico nel
1960 si confermò incapace di apprezzare i beatnik,
e ne volle discutere ampiamente: nelle note di viaggio che poi non pubblicò
(edite recentemente col titolo “Un ottimista in America”): “Un discorso
generale sulla beat generation non mi
viene”. Un limite autobiografico interpolando a sorpresa importante: “Nella mia
giovinezza mi è capitato di desiderare di identificarmi con diverse immagini di
civiltà, volta a volta o tutte insieme: l’aristocrazia inglese, i bolscevichi
russi, i conquérants di Malraux, gli
esteti di Bloomsbuty, il «Brain Trust» del New Deal, ma erano sempre «classi
dirigenti» o che tendevano a diventar tali. (Certo ci sarà sotto un complesso)”.
E quindi, continuava tornando in argomento, non trovò nei beatnik poesia, scrittura, ispirazione,
tematiche. Non solo tra i beat, per
la verità, non trovava “grandi scrittori” nell’America tutta – un lapsus, indotto
dall’obbedienza al Partito, benché ufficialmente ripudiato.
Il
Barone Ramante non è l’intellettuale come lo avrebbe voluto? Uno che partecipa
alle vicende del tempo dall’alto degli alberi. E da lì parla principalmente dei
suoi compagni, male.
Un
curioso, senza passioni? Ha un momento di sincerità nel deserto Usa – in “Un ottimista
in America”: “Vinco sempre”, confessa a Las Vegas, “annoiato” dalla roulette,
“vinco anche qui, dove la ruota dei numeri ha due zeri”. E questo è grave,
anche se non interrompe la noia: “Non riesco a trarre emozioni dal gioco, mi
annoio”. Il futuro scrittore dei giochi, combinatori e non, si annoia al gioco
d’azzardo – perché vince sempre. Vince anche alla slot-machine, dove non ha mai
visto vincere nessuno: butta una monetina nella feritoia e vince anche lì,
senza gusto: “Intasco, sbadiglio sempre più insoddisfatto di me stesso, e vado
a dormire”.
Lo
dice di Las Veags, ma se fosse caratteriale? “Privo delle passioni del vizioso
e dell’innocenza del sano, godo ogni cosa e ogni cosa è come niente”..
L’ideologia
dice a partire dal 1960 spreco, e catastrofe. A partire dalle note di viaggio
in America, ora in “Un ottimista in America”. Dice “catastrofiche” le
“soluzioni ideologiche astratte”. Il suo credo è: “Oggi non si può dare norma
etico-politica se non basata su un’economia della felicità e delle sofferenze”
– giustificandosi, sempre prudente: “In un calcolo che senza essere miope e
timoroso parta però dalla coscienza che con queste cose non si scherza”.
Cultura popolare – Antonio D Orrico pubblica da qualche tempo, nella rubrica “Consegna pacchi” su “Sette”, ottimi racconti di corrispondenti occasionali. Ricordi di persone, per lo più morte, senza la memoria che si meritavano, sportivi, bricconi, o anche letterati. L’informale serie è stata inaugurata da Dante Matelli, che invece è uno scrittore. E può darsi che D’Orrico riveda le prose dei suo corrispondenti. Ma sono sempre, benché d’occasione e di autori anonimi, racconti sorprendenti e persuasivi.
È la virtù dell’inedito, del personale, del deconsiderato. Che
beneficia dell’effetto sorpresa. Ma è anche la memoria che Saverio Tutino
avrebbe volto salvare nell’archivio diaristico di Pieve Santo Stefano. Con in
più forse l’oralità. L’archivio fa riferimento a diari, memorie, ricordi
“scritti” – bene o male ma scritti, con intenzione. Mentre quelli che riceve
D’Orrico sono contributi occasionali, più che altro stimolati dall’evento: una
menzione, un’emersione, una ricorrenza, un déclic
sempre fortuito. Con la freschezza quindi del racconto orale e la sinteticità
della scrittura. La scrittura può essere “popolare”.
Nulla a che vedere anche con lo sciocchezzaio in rete. Di
impressioni, sentimenti e filosofie da baci o da coatti: i corrispondenti di
D’Orrico si segnalano per asciuttezza e significatività. Non è vero che la rete
ha “livellato tutto”.
Donne – Si leggono con
sorpresa dichiarazione e prose evocative degli anni 1950-1960, di giovinezze e
debutti, e modi di essere. Per esempio di Vattimo a proposito di Eco, di Magris
su Torino (Eco e Vattimo, e tanti altri), di Nico Naldini su Parise a Milano o
su Pasolini. Perché vi si parla di “donne”: fidanzate, amiche, maliarde, e
anche da casino, nonché di infatuazioni, corrisposte e non, cedue e durature. Un
mondo in cui c’era distanza tra i sessi, ma comunanza di sentito, senza
barriere di genere, e senza violenza.“Eravamo impermeabili a frigidità e pornografia”,
Saverio Vertone ricorda ne “I ragazzi di via Po” di Cazzullo. E: “La società non
dilapidava precocemente le sorprese, lasciava al di là del muro le cose belle”. O Eco
nostalgico, sempre con Cazzullo. “Gli anni Cinquanta per me sono bianchi come
le gonne delle ragazze del film «Poveri ma belli»”.
Non male, ma di un mondo che si evoca – raramente - come remoto, e
anche sbagliato, al meglio si dice goliardico. Oggi non sarebbe possibile, e
con buona coscienza. Ma non da ora, da qualche tempo ormai. Non ci sono più le
“donne”, se non per conflitti, violenze, competizioni, e perdite più che
ritrovamenti, in chiave cioè drammatica, non “normale” – lo stesso nei racconti
di donne dove s’incontrano uomini. Un mondo di separati.
U. Eco – “Tra i 18 e i 20
ho scritto un lungo racconto intitolato «Il concerto»” rivela in una lunga
intervista con Ferdinando Adornato per “l’Espresso” nel 1990, al lancio del
“Pendolo di Foucault”. Un racconto che meriterebbe riprendere, di cui dà
nell’intervista una sinossi molto attraente. Ci sarà dunque anche un Eco postumo?
“Il concerto” è in nuce, diceva Eco,
“Il Pendolo di Foucault”.
In realtà scrisse molto nell’adolescenza, nei periodici scolastici e
nelle riviste universitaria, come spiegherà successivamente a Aldo Cazzullo in “I
ragazzi di via Po”. Prevalentemente drammi.
.
Religioso, non religioso? Dalla dirigenza dell’Azione Cattolica all’incredulità?
Del “Pendolo di Foucault” disse non scherzosamente: “È una metafora di Dio”.
Belbo, il piemontese redattore editoriale, uno dei protagonisti del
romanzo, a una certo punto spiega a Casaubon, l’io narrante – ma Eco si indentifica
più in Belbo che in Casaubon: “Sarà l’atmosfera della chiesa” - il Conservatorio
parigino delle Arti e Mestieri che ospita il pendolo si trova nel vecchio
Priorato di Saint-Martin-des-Champs, laicizzato nel 1789 - “ma le assicuro che
si prova una sensazione molto forte. L’idea che tutto scorra e solo là in alto
esista l’unico punto fermo dell’universo… Per chi non ha fede è un modo per
ritrovare Dio, e senza mettere in gioco la propria miscredenza, perché di
tratta di un Polo Nulla”.
Una teoria metafisica e fisica a cui Eco credeva – la credeva,
ingenuamente, scientifica. Lo spiegava all’uscita del “Pendolo” a Ferdinando
Adornato sull’ “Espresso” del 9 ottobre 1988: “Il pendolo corrispondeva alla
perfezione ad alcune mie invenzioni letterarie. Invenzioni che ho verificato
sul piano scientifico prima con un giovane fisico incontrato per caso in una
trattoria bolognese nel 1982, poi con Mario Salvadori, uno scienziato geniale
che collaborò con Fermi al progetto Manhattan”.
Transnazionale – Non si
contano più gli scrittori italiani di madrelingue diversa, tedesca, inglese,
araba, amharà, etc.: Ornela Vorpsi, Helena Janeczek, Amara Lakhous, Younis Tawfik, Talye Selasi,
Helene Paraskeva, Christiana de Caldars Brito, e tanti altri. Dopoun apprendistato
breve e recente. Fino a Jumpha Lahiri, che da autore di successo in inglese
negli Usa, ha scelto l’Italia e l’italiano, come spiega nell’emozionante “In
altre parole”.
Sono italianizzati anche scrittori tedeschi. Di una lingua madre cioè
di cui è stata autorevolmente teorizzata l’inseparabilità, e più dagli esclusi dalla
politica razziale, da Paul Celan, Nelly Sachs, Hannah Arendt con più costanza,
e a suo modo, con la parlata inglese teutonica, dopo ottanta e più anni, da Kissinger.
L’elenco anche qui è lungo, bastino alcuni nomi di spessore: Edith Bruck, Helga Schneider, Helena Janeczek, nate in tedesco.
Si può ipotizzare una scrittura transnazionale? La lingua, che si ipotizzava
barriera insuperabile della nazionalità, e sua linfa, è invece adattabile? È la
prospettiva che Frederika Randall, la più stimata traduttrice oggi dall’italiano
all’inglese (Meneghello e Nievo trta i tanti), espone nel contributo “Unbeloging”, non appartenenza, a un convegno
sulla traduzione, “Translating
‘Local’ Flavor for Global Audiences: Transnational Perspectives in Italian
Studies”, organizzato a Vancouver, per l’università della British Columbia, da
Elisa Segnini:
Il caso che porta supera ogni dubbio: è quello di Alessandro Spina, l’autore
dei “Confini dell’ombra”, premio Bagutta 2007, morto due anni fa. Pseudonimo di Vassilij Khuzam, nato a Bengasi da
famiglia maronita siriana di Aleppo. Laureato in lettere a Milano, poi
dirigente a Bengasi di un’azienda tessile, di proprietà familiare - per un
decennio ancora dopo l’espulsione delle comunità
straniere (coloniali) da parte di Gheddafi nel 1970, fino cioè alla nazionalizzazione
dell’azienda nel 1979. Si stabilirà allora in Italia, si naturalizzerà, e si avvierà
alla scrittura. Che aveva tentato con un certo credito già nel 1962, con un
racconto pubblicato da Scheiwiller, e poi aveva abbandonato, insieme con la
lingua.
letterautore@antiit.eu
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