domenica 17 aprile 2016

Letture - 254

letterautore

Anni – Gli anni ’20, gli anni ’30, sono americani. Nelle lettere, e anche nella storia, nella cultura: non una continuità, un’evoluzione, una scuola di pensiero o una poetica. La classificazione è solo possibile per strati cronologici, meglio indicati per semplicità con la decade.

Italo Calvino – L’ideale aveva della “classe dirigente”. In America per un lungo sabbatico nel 1960 si confermò incapace di apprezzare i beatnik, e ne volle discutere ampiamente: nelle note di viaggio che poi non pubblicò (edite recentemente col titolo “Un ottimista in America”): “Un discorso generale sulla beat generation non mi viene”. Un limite autobiografico interpolando a sorpresa importante: “Nella mia giovinezza mi è capitato di desiderare di identificarmi con diverse immagini di civiltà, volta a volta o tutte insieme: l’aristocrazia inglese, i bolscevichi russi, i conquérants di Malraux, gli esteti di Bloomsbuty, il «Brain Trust» del New Deal, ma erano sempre «classi dirigenti» o che tendevano a diventar tali. (Certo ci sarà sotto un complesso)”. E quindi, continuava tornando in argomento, non trovò nei beatnik  poesia, scrittura, ispirazione, tematiche. Non solo tra i beat, per la verità, non trovava “grandi scrittori” nell’America tutta – un lapsus, indotto dall’obbedienza al Partito, benché ufficialmente ripudiato.
Il Barone Ramante non è l’intellettuale come lo avrebbe voluto? Uno che partecipa alle vicende del tempo dall’alto degli alberi. E da lì parla principalmente dei suoi compagni, male.

Un curioso, senza passioni? Ha un momento di sincerità nel deserto Usa – in “Un ottimista in America”: “Vinco sempre”, confessa a Las Vegas, “annoiato” dalla roulette, “vinco anche qui, dove la ruota dei numeri ha due zeri”. E questo è grave, anche se non interrompe la noia: “Non riesco a trarre emozioni dal gioco, mi annoio”. Il futuro scrittore dei giochi, combinatori e non, si annoia al gioco d’azzardo – perché vince sempre. Vince anche alla slot-machine, dove non ha mai visto vincere nessuno: butta una monetina nella feritoia e vince anche lì, senza gusto: “Intasco, sbadiglio sempre più insoddisfatto di me stesso, e vado a dormire”.
Lo dice di Las Veags, ma se fosse caratteriale? “Privo delle passioni del vizioso e dell’innocenza del sano, godo ogni cosa e ogni cosa è come niente”..
L’ideologia dice a partire dal 1960 spreco, e catastrofe. A partire dalle note di viaggio in America, ora in “Un ottimista in America”. Dice “catastrofiche” le “soluzioni ideologiche astratte”. Il suo credo è: “Oggi non si può dare norma etico-politica se non basata su un’economia della felicità e delle sofferenze” – giustificandosi, sempre prudente: “In un calcolo che senza essere miope e timoroso parta però dalla coscienza che con queste cose non si scherza”.  

Cultura popolare – Antonio D Orrico pubblica da qualche tempo, nella rubrica “Consegna pacchi” su “Sette”, ottimi racconti di corrispondenti occasionali. Ricordi di persone, per lo più morte, senza la memoria che si meritavano, sportivi, bricconi, o anche letterati. L’informale serie è stata inaugurata da Dante Matelli, che invece è uno scrittore. E può darsi che D’Orrico riveda le prose dei suo corrispondenti. Ma sono sempre, benché d’occasione e di autori anonimi, racconti sorprendenti e persuasivi.
È la virtù dell’inedito, del personale, del deconsiderato. Che beneficia dell’effetto sorpresa. Ma è anche la memoria che Saverio Tutino avrebbe volto salvare nell’archivio diaristico di Pieve Santo Stefano. Con in più forse l’oralità. L’archivio fa riferimento a diari, memorie, ricordi “scritti” – bene o male ma scritti, con intenzione. Mentre quelli che riceve D’Orrico sono contributi occasionali, più che altro stimolati dall’evento: una menzione, un’emersione, una ricorrenza, un déclic sempre fortuito. Con la freschezza quindi del racconto orale e la sinteticità della scrittura. La scrittura può essere “popolare”.
Nulla a che vedere anche con lo sciocchezzaio in rete. Di impressioni, sentimenti e filosofie da baci o da coatti: i corrispondenti di D’Orrico si segnalano per asciuttezza e significatività. Non è vero che la rete ha “livellato tutto”.

Donne – Si leggono con sorpresa dichiarazione e prose evocative degli anni 1950-1960, di giovinezze e debutti, e modi di essere. Per esempio di Vattimo a proposito di Eco, di Magris su Torino (Eco e Vattimo, e tanti altri), di Nico Naldini su Parise a Milano o su Pasolini. Perché vi si parla di “donne”: fidanzate, amiche, maliarde, e anche da casino, nonché di infatuazioni, corrisposte e non, cedue e durature. Un mondo in cui c’era distanza tra i sessi, ma comunanza di sentito, senza barriere di genere, e senza violenza.“Eravamo impermeabili a frigidità e pornografia”, Saverio Vertone ricorda ne “I ragazzi di via Po” di Cazzullo. E: “La società non dilapidava precocemente le sorprese, lasciava al di là del muro le cose belle”. O Eco nostalgico, sempre con Cazzullo. “Gli anni Cinquanta per me sono bianchi come le gonne delle ragazze del film «Poveri ma belli»”.
Non male, ma di un mondo che si evoca – raramente - come remoto, e anche sbagliato, al meglio si dice goliardico. Oggi non sarebbe possibile, e con buona coscienza. Ma non da ora, da qualche tempo ormai. Non ci sono più le “donne”, se non per conflitti, violenze, competizioni, e perdite più che ritrovamenti, in chiave cioè drammatica, non “normale” – lo stesso nei racconti di donne dove s’incontrano uomini. Un mondo di separati.

U. Eco – “Tra i 18 e i 20 ho scritto un lungo racconto intitolato «Il concerto»” rivela in una lunga intervista con Ferdinando Adornato per “l’Espresso” nel 1990, al lancio del “Pendolo di Foucault”. Un racconto che meriterebbe riprendere, di cui dà nell’intervista una sinossi molto attraente. Ci sarà dunque anche un Eco postumo? “Il concerto” è in nuce, diceva Eco, “Il Pendolo di Foucault”.
In realtà scrisse molto nell’adolescenza, nei periodici scolastici e nelle riviste universitaria, come spiegherà successivamente a Aldo Cazzullo in “I ragazzi di via Po”. Prevalentemente drammi.
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Religioso, non religioso? Dalla dirigenza dell’Azione Cattolica all’incredulità? Del “Pendolo di Foucault” disse non scherzosamente: “È una metafora di Dio”.
Belbo, il piemontese redattore editoriale, uno dei protagonisti del romanzo, a una certo punto spiega a Casaubon, l’io narrante – ma Eco si indentifica più in Belbo che in Casaubon: “Sarà l’atmosfera della chiesa” - il Conservatorio parigino delle Arti e Mestieri che ospita il pendolo si trova nel vecchio Priorato di Saint-Martin-des-Champs, laicizzato nel 1789 - “ma le assicuro che si prova una sensazione molto forte. L’idea che tutto scorra e solo là in alto esista l’unico punto fermo dell’universo… Per chi non ha fede è un modo per ritrovare Dio, e senza mettere in gioco la propria miscredenza, perché di tratta di un Polo Nulla”.
Una teoria metafisica e fisica a cui Eco credeva – la credeva, ingenuamente, scientifica. Lo spiegava all’uscita del “Pendolo” a Ferdinando Adornato sull’ “Espresso” del 9 ottobre 1988: “Il pendolo corrispondeva alla perfezione ad alcune mie invenzioni letterarie. Invenzioni che ho verificato sul piano scientifico prima con un giovane fisico incontrato per caso in una trattoria bolognese nel 1982, poi con Mario Salvadori, uno scienziato geniale che collaborò con Fermi al progetto Manhattan”.

Transnazionale – Non si contano più gli scrittori italiani di madrelingue diversa, tedesca, inglese, araba, amharà, etc.:  Ornela Vorpsi, Helena Janeczek, Amara Lakhous, Younis Tawfik, Talye Selasi, Helene Paraskeva, Christiana de Caldars Brito, e tanti altri. Dopoun apprendistato breve e recente. Fino a Jumpha Lahiri, che da autore di successo in inglese negli Usa, ha scelto l’Italia e l’italiano, come spiega nell’emozionante “In altre parole”.
Sono italianizzati anche scrittori tedeschi. Di una lingua madre cioè di cui è stata autorevolmente teorizzata l’inseparabilità, e più dagli esclusi dalla politica razziale, da Paul Celan, Nelly Sachs, Hannah Arendt con più costanza, e a suo modo, con la parlata inglese teutonica, dopo ottanta e più anni, da Kissinger. L’elenco anche qui è lungo, bastino alcuni nomi di spessore: Edith Bruck,  Helga Schneider, Helena Janeczek, nate in tedesco.
Si può ipotizzare una scrittura transnazionale? La lingua, che si ipotizzava barriera insuperabile della nazionalità, e sua linfa, è invece adattabile? È la prospettiva che Frederika Randall, la più stimata traduttrice oggi dall’italiano all’inglese (Meneghello e Nievo trta i tanti), espone nel contributo “Unbeloging”, non appartenenza, a un convegno sulla traduzione, “Translating ‘Local’ Flavor for Global Audiences: Transnational Perspectives in Italian Studies”, organizzato a Vancouver, per l’università della British Columbia, da Elisa Segnini:

Il caso che porta supera ogni dubbio: è quello di Alessandro Spina, l’autore dei “Confini dell’ombra”, premio Bagutta 2007, morto due anni fa. Pseudonimo di Vassilij Khuzam, nato a Bengasi da famiglia maronita siriana di Aleppo. Laureato in lettere a Milano, poi dirigente a Bengasi di un’azienda tessile, di proprietà familiare - per un decennio ancora dopo  l’espulsione delle comunità straniere (coloniali) da parte di Gheddafi nel 1970, fino cioè alla nazionalizzazione dell’azienda nel 1979. Si stabilirà allora in Italia, si naturalizzerà, e si avvierà alla scrittura. Che aveva tentato con un certo credito già nel 1962, con un racconto pubblicato da Scheiwiller, e poi aveva abbandonato, insieme con la lingua.

letterautore@antiit.eu

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