Belgio – Bruxelles era la
città dell’odio razziale già in “Sottomisisone”, il romanzo di Houellebecq, di
metà gennaio 2015. Houellebecq manda il suo protagonista in gita in Belgio, sulle
orme di Huysmans di cui cura la Pléiade. E gli fa ricordare una precedente
visita a Bruxelles, sempre sulle orme del suo scrittore: “A colpirmi erano
state soprattutto la sporcizia e la tristezza della città, così come l’odio
palpabile, ancor più che a Parigi e Londra, tra le comunità: a Bruxelles ci si
sentiva più che in qualsiasi altra capitaòe europea, sull’orlo della guerra
civile”.
È però il luogo dove molta letteratura francese nel secondo Ottocento
ha potuto esprimersi, Victor Hugo, Dumas, Baudelaire, Multatuli e tanti altri, compresso
Huysmans. Houellebecq lo ricorda: “Huysmans era stato pubblicato a Bruxelles,
ma a dire il vero quasi tutti gli autori importanti della seconda metà del
secolo XIX avevano dovuto, a un certo punto, per sfuggire alla censura, ricorrere
ai servizi di un editore belga”.
Italo Calvino – Élemire
Zola ne fa un ritratto pessimo a Cazzullo in “I ragazzi di via Po”, anche
prevenuto, ma circostanziato: “Calvino era il più interessante, colto, curioso,
estroso, ma il suo lato politico dava i brividi, aveva battute terribili,
chiamava la Achmatova «quella cara figliola con il marito zarista», e stava parlando
della più grande poetessa del secolo… Anche lui recitava una parte, il tizio
venuto dalla provincia ligure, l’ingenuo che ha difficoltà di parola ma la
battuta graffiante. Aveva adottato i vezzi fiorentini di Cecchi e l’arte di
dissimularvi il proprio pensiero dietro un’aria misteriosa”.
U. Eco – È “Il nome della
rosa” una burla? Eco ha scritto molto e qualche traccia ha lasciato. Molteplici
anzi, e solide, ma quasi seppellite. Dall’alluvione di prose, la sua alluvione.
Non resta molto delle tante joyciane, la passione di una vita. Né
delle sherlockholmesiane, del tempo del
giallo gotico: l’induzione di tanti suoi saggi allontana da Sherlock Holmes e
non porta a nulla, a un esercizio cerebrale sterile. La semiosi del complotto
avrebbe potuto gestire meglio, con più efficacia verità), se vi si fosse applicato
invece che disperso, sia pure nell’indignazione. O il riso, di cui si proponeva
sempre di scrivere la poetica, quella mancante o perduta di Aristotele - che
progettò infine di scrivere ai sessant’anni, “o magari più avanti ancora”,
confidava a Cazzullo ne “I ragazzi di via Po”, sempre scherzoso: “Con la
speranza di morire prima di scriverlo, così tutti avanzeranno tesi per sapere qual
era la mia teoria”. Ma ha solo scritto qualcosa su Pirandello, trascurabile, qualcosa
sul comico e la regola, e profusamente di Campanile, senza esito e senza
neppure senso. In realtà senza impegno: l’idea, diceva ancora a Cazzullo “me la
sono giocata lì”, nel “Nome del arsa”. Ove non ce n’è traccia – o è tutto una
burla?
Dovendolo sistematizzare, si può
collocarlo in tre fasi, anche se diventa “Eco” col “Nome della rosa”, 1980. Col
romanzo inaugura e impone il postmoderno, che Lyotard aveva appena concettualizzato
- ma nella “Postilla”, tre anni dopo, il postmoderno trova caratteristicamente
– sempre primo - in John Barth, “La letteratura dell’esaurimento”, 1967 (lo
stesso Barth, aggiunge, che ha ripreso il tema nel 1980, ma sotto il titolo “La
letteratura della pienezza”): “Arriva il momento che l’Avanguardia (il Moderno)
non può più andare oltre perché ha ormai prodotto un metalinguaggio che parla
dei suoi impossibili testi (l’arte concettuale). La risposta postmoderna
consiste nel riconoscere che il passato (...) deve essere rivisitato: con
ironia, in modo non innocente”.
È una dei “rovesciamenti”, anch’essi
caratteristici di Eco, dell’avanguardia
vent’anni prima. Il terzo rovesciamento sarà, quasi subito dopo, i “limiti
dell’interpretazione” – un ritorno alla sobrietà. Senza rinunciare a dire il
già detto – agli ingredienti della postmodernità, come può dire Pierlugi Panza
presentando la riedizione delle sue opere in edicola: “Sebbene
Umberto Eco non sia completamente iscrivibile nella Postmodernità, in quanto
nasce come semiologo strutturalista, lo sono la sua opera letteraria, in parte
quella saggistica e la sua passione da bibliofilo”.
Poligamia – Fa felice la
donna, secondo Houellebecq,”Sottomissione”, non senza argomenti – nella neonata
repubblica islamica di Francia le donne tornano a sorridere. Perché le toglie
dal mercato del lavoro: precariato, pendolarismo, paga modesta, un’agitazione
nervosa insopportabile. E impone in casa una divisione comoda del lavoro: una
moglie in età per l’accudimento e una inesperta per “le altre cose”. E perché
la libera dalla schiavitù del corpo: i pantaloni sformati e il camicione tre
quarti sono in effetti molto comodi. Senza contare il velo, che libera dalla schiavitù
del parrucchiere. icia-casacca tre quarti sono moto comode., la libera
Shakespeare – Fu vittima
del classismo, in vita e a lungo in morte – per la difficoltà d’inquadrarne la
biografia?
Stephen Greenblatt ne ricorda sulla “New York Review of Books” del 21
aprile il giorno della morte, il 23 aprile 1616, come il non-evento per eccellenza,
eccetto che per pochi contemporanei, nemmeno tanto amici. Non ci fu commozione,
né un gran funerale, nella chiesa della Santa Trinità di Stratford. Nessuno ne
propose la sepoltura a Westminster Abbey, accanto a Chaucer o Spenser. Francis
Beaumont sì, lo stesso anno, e Ben Jonson qualche anno più tardi, Shakespeare
no. Nessuno ne seppe nulla nel continente, nessuna corrispondenza diplomatica registra
l’evento. E anche a Stratford non molti si emozionarono. Greenblatt ricorda a
contrasto l’eccitazione che seguirà la morte tre anni dopo dell’attore
Richard Burbage, in Inghilterra e
altrove, di cui soprattutto si ricordarono, e si celebrarono in elegie famose,
i ruoli shakespeariani, Amleto, Lear, il Moro.
È una riprova della “non esistenza” di Shakespeare? No, arguisce Greenblatt.
È una riprova del credito dell’interprete (il divismo) sull’autore, allora come
ancora oggi, a teatro e nei film, che “vanno” con gli attori. Ed è l’esito di
un classismo acuto nella società, per cui il nobile che si occupava di letteratura
poteva compiangere un grande attore morto, altro mondo dal suo e proiettato nell’epica,
nel mito, ma non un piccolo borghese impresario di teatro senza alcuna attache etonoxoniense, da grande scuola.
La distanza sociale sarà accorciata sette anni dopo da Ben Jonson, con l’edizione
di tutte le opere di Shakespeare a cura di Heminges e Condell, da lui dedicata
a William Herbert e fratello, grandi aristocratici, con questa precisa avvertenza:
non sapeva di greco e di latino, ma ci richiama Eschilo, Euripide e Sofocle.
letterautore@antiit.eu
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