domenica 24 aprile 2016

Letture - 255

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Belgio – Bruxelles era la città dell’odio razziale già in “Sottomisisone”, il romanzo di Houellebecq, di metà gennaio 2015. Houellebecq manda il suo protagonista in gita in Belgio, sulle orme di Huysmans di cui cura la Pléiade. E gli fa ricordare una precedente visita a Bruxelles, sempre sulle orme del suo scrittore: “A colpirmi erano state soprattutto la sporcizia e la tristezza della città, così come l’odio palpabile, ancor più che a Parigi e Londra, tra le comunità: a Bruxelles ci si sentiva più che in qualsiasi altra capitaòe europea, sull’orlo della guerra civile”.

È però il luogo dove molta letteratura francese nel secondo Ottocento ha potuto esprimersi, Victor Hugo, Dumas, Baudelaire, Multatuli e tanti altri, compresso Huysmans. Houellebecq lo ricorda: “Huysmans era stato pubblicato a Bruxelles, ma a dire il vero quasi tutti gli autori importanti della seconda metà del secolo XIX avevano dovuto, a un certo punto, per sfuggire alla censura, ricorrere ai servizi di un editore belga”.

Italo Calvino – Élemire Zola ne fa un ritratto pessimo a Cazzullo in “I ragazzi di via Po”, anche prevenuto, ma circostanziato: “Calvino era il più interessante, colto, curioso, estroso, ma il suo lato politico dava i brividi, aveva battute terribili, chiamava la Achmatova «quella cara figliola con il marito zarista», e stava parlando della più grande poetessa del secolo… Anche lui recitava una parte, il tizio venuto dalla provincia ligure, l’ingenuo che ha difficoltà di parola ma la battuta graffiante. Aveva adottato i vezzi fiorentini di Cecchi e l’arte di dissimularvi il proprio pensiero dietro un’aria misteriosa”.

U. Eco – È “Il nome della rosa” una burla? Eco ha scritto molto e qualche traccia ha lasciato. Molteplici anzi, e solide, ma quasi seppellite. Dall’alluvione di prose, la sua alluvione.
Non resta molto delle tante joyciane, la passione di una vita. Né delle  sherlockholmesiane, del tempo del giallo gotico: l’induzione di tanti suoi saggi allontana da Sherlock Holmes e non porta a nulla, a un esercizio cerebrale sterile. La semiosi del complotto avrebbe potuto gestire meglio, con più efficacia verità), se vi si fosse applicato invece che disperso, sia pure nell’indignazione. O il riso, di cui si proponeva sempre di scrivere la poetica, quella mancante o perduta di Aristotele - che progettò infine di scrivere ai sessant’anni, “o magari più avanti ancora”, confidava a Cazzullo ne “I ragazzi di via Po”, sempre scherzoso: “Con la speranza di morire prima di scriverlo, così tutti avanzeranno tesi per sapere qual era la mia teoria”. Ma ha solo scritto qualcosa su Pirandello, trascurabile, qualcosa sul comico e la regola, e profusamente di Campanile, senza esito e senza neppure senso. In realtà senza impegno: l’idea, diceva ancora a Cazzullo “me la sono giocata lì”, nel “Nome del arsa”. Ove non ce n’è traccia – o è tutto una burla?

Dovendolo sistematizzare, si può collocarlo in tre fasi, anche se diventa “Eco” col “Nome della rosa”, 1980. Col romanzo inaugura e impone il postmoderno, che Lyotard aveva appena concettualizzato - ma nella “Postilla”, tre anni dopo, il postmoderno trova caratteristicamente – sempre primo - in John Barth, “La letteratura dell’esaurimento”, 1967 (lo stesso Barth, aggiunge, che ha ripreso il tema nel 1980, ma sotto il titolo “La letteratura della pienezza”): “Arriva il momento che l’Avanguardia (il Moderno) non può più andare oltre perché ha ormai prodotto un metalinguaggio che parla dei suoi impossibili testi (l’arte concettuale). La risposta postmoderna consiste nel riconoscere che il passato (...) deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente”.
È una dei “rovesciamenti”, anch’essi caratteristici di Eco,  dell’avanguardia vent’anni prima. Il terzo rovesciamento sarà, quasi subito dopo, i “limiti dell’interpretazione” – un ritorno alla sobrietà. Senza rinunciare a dire il già detto – agli ingredienti della postmodernità, come può dire Pierlugi Panza presentando la riedizione delle sue opere in edicola: “Sebbene Umberto Eco non sia completamente iscrivibile nella Postmodernità, in quanto nasce come semiologo strutturalista, lo sono la sua opera letteraria, in parte quella saggistica e la sua passione da bibliofilo”.

Poligamia – Fa felice la donna, secondo Houellebecq,”Sottomissione”, non senza argomenti – nella neonata repubblica islamica di Francia le donne tornano a sorridere. Perché le toglie dal mercato del lavoro: precariato, pendolarismo, paga modesta, un’agitazione nervosa insopportabile. E impone in casa una divisione comoda del lavoro: una moglie in età per l’accudimento e una inesperta per “le altre cose”. E perché la libera dalla schiavitù del corpo: i pantaloni sformati e il camicione tre quarti sono in effetti molto comodi. Senza contare il velo, che libera dalla schiavitù del parrucchiere. icia-casacca tre quarti sono moto comode., la libera

Shakespeare – Fu vittima del classismo, in vita e a lungo in morte – per la difficoltà d’inquadrarne la biografia?
Stephen Greenblatt ne ricorda sulla “New York Review of Books” del 21 aprile il giorno della morte, il 23 aprile 1616, come il non-evento per eccellenza, eccetto che per pochi contemporanei, nemmeno tanto amici. Non ci fu commozione, né un gran funerale, nella chiesa della Santa Trinità di Stratford. Nessuno ne propose la sepoltura a Westminster Abbey, accanto a Chaucer o Spenser. Francis Beaumont sì, lo stesso anno, e Ben Jonson qualche anno più tardi, Shakespeare no. Nessuno ne seppe nulla nel continente, nessuna corrispondenza diplomatica registra l’evento. E anche a Stratford non molti si emozionarono. Greenblatt ricorda a contrasto l’eccitazione che seguirà la morte tre anni dopo dell’attore Richard  Burbage, in Inghilterra e altrove, di cui soprattutto si ricordarono, e si celebrarono in elegie famose, i ruoli shakespeariani, Amleto, Lear, il Moro.
È una riprova della “non esistenza” di Shakespeare? No, arguisce Greenblatt. È una riprova del credito dell’interprete (il divismo) sull’autore, allora come ancora oggi, a teatro e nei film, che “vanno” con gli attori. Ed è l’esito di un classismo acuto nella società, per cui il nobile che si occupava di letteratura poteva compiangere un grande attore morto, altro mondo dal suo e proiettato nell’epica, nel mito, ma non un piccolo borghese impresario di teatro senza alcuna attache etonoxoniense, da grande scuola. La distanza sociale sarà accorciata sette anni dopo da Ben Jonson, con l’edizione di tutte le opere di Shakespeare a cura di Heminges e Condell, da lui dedicata a William Herbert e fratello, grandi aristocratici, con questa precisa avvertenza: non sapeva di greco e di latino, ma ci richiama Eschilo, Euripide e Sofocle.

letterautore@antiit.eu

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