Una buona metà di queste
prose sono già confluite nella raccolta precedente curata da Santino Salerno,
“Il cavallo Ungaretti”. Ma si leggono anche esse con gusto. Di “ironia corrosiva”
e con qualche “eccesso”, come avverte il curatore, ma di straordinaria fantasia
e dominio del linguaggio, capace di sbalzare gli aneddoti e i personaggi più
insignificanti, facendoli straordinari, per bislaccheria ugualmente che nell’ordinario,
e inverosimili perché veri, reali.
Ma Zappone è anche l’enigma del
suicidio. Nel 1976, a 65 anni, senza ragione percepita o immediata, dopo una
vita intraprendente, benché sempre a metà: Zappone osava e poi si fermava. Se una
vita non spiega il suicidio, argomenta Salerno, un suicidio spiega una vita: l’inquietudine
dietro il sorriso è stato il suo demone costante, “un dissonante rapporto con la
vita”, dietro l’arguzia e l’irrisione. Dietro la “zannella”, lo scherzo bonario che è per i molti un abito mentale locale, da cui Zappone, attestava Totò Delfino che molto lo frequentò in attività giornalistiche, non sapeva e non voleva separarsi. “Lo scherzo non conosce altro scopo che il
suo proprio esistere”, stabilisce Jean Paul, lo scrittore scherzoso per eccellenza. O il segno non è il lutto, la luttuosità?
“Assurdo” è la
parola più ricorrente nei suoi scritti, nota il curatore. Ed è una della chiavi
narrative di Zappone, la “scoperta” del lato assurdo delle cose. Ma un’altra è
la giocosità – il riso più che il sarcasmo. E sempre la memoria compiaciuta,
netta, consolatoria: i giochi da ragazzi, bradi a Palmi tra monte e mari, “una
volta il mondo era popolato di amici”, e “il paese a quei tempi era nelle
nostre mani”, i “Giganti” della festa, il cerimoniale dell’uovo fresco rosolato
al braciere, i deserti che il terremoto provoca, di affetti nonché di cose, la
città nel suo ricostituirsi post-distruzione (terremoto, bombardamenti), la
salsiccia, la vendemmia, la campagna fradicia di fine autunno, le violette di
campo, gli usi propiziatori (il fuoco dell’ultimo sabato di luglio), e sempre
la presenza amica del padre. Più alcuni ritratti per qualche aspetto memorabili, nella seconda metà, quella nuova, della raccolta. Cilea riservato, la
gloria locale a cui tutto viene intestato. Répaci frantoiano, incapace per anni
di venire a capo delle misure borboniche per la stima e la raccolta delle
ulive, al punto da non saperne calcolare la resa.
La presentazione di
Salerno è un racconto del racconto. Zappone fu famoso negli anni 1950 per una rubrica
alla Rai regionale, dove suicidò un pesce spada, e fece attraversare lo Stretto
a nuoto a un cane fedele, che il padrone aveva abbandonato in Sicilia non potendosi
permettere la tassa comunale, da Messina a Scilla. Due storie che valsero, racconta
Salerno, “a Giuseppe Gagliostro, arpionatore di Palmi, ignaro del fantomatico
suicidio del pescespada, e Rocco Gallì di Scilla, proprietario di Bob, il cane
che il mare lo aveva sempre guardato a debita distanza, anch’egli ignaro
dell’abbandono,… l’assalto di uno stuolo d’inviati speciali che invasero Scilla
e Palmi” – “Rocco Gallì, in particolare, fu destinatario di centinaia di lettere
piene d’insulti…. Un avvocato, indignatissimo, gli inviò dal Cairo una
banconota con un lapidario messaggio: «sfamati e sfamalo!»”. Uno scrittore ancora
in grado di “farsi” la realtà, la sua realtà – così come “faceva” la cronaca,
come attestava amabilmente Totò Delfino, suo compagno di reportages
giornalistici.
Un narratore “nato”
– uno dei tanti – inabissatosi con la sua terra, la Calabria, per una
sussidenza inarrestabile. Scrittore di molti mondi – l’ultimo suo pezzo, qui
non incluso, pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” il 12 ottobre 1976,
venti giorni prima del suicidio, è “Stringente malia di Praga, città di alchimisti
e di maghi” . Ma più del suo mondo: “una Calabria”, nota Salerno, “d’altri
tempi, una regione in bianco e nero, vista dal vivo in tutta la sua carica di
umanità, di fede, di caparbietà, di miseria, di cultura popolare e di cultura
alta, e soprattutto di dignità”. Soprattutto di dignità, il bene perduto. Da un’umanità mite, tanto da farsene una colpa - probabilmente la colpa. Troppo: romantica, malinconica, e per questo
succube. Non facinorosa, al contrario: “nonviolenta”. Aspetta il raggio verde.
Guarda il mare, le isole, lo Stretto, l’Etna. Si culla nelle tradizioni e nel
mito. Preda offrendosi senza difese alla violenza.
Zappone rimase ai
margini per problemi, soprattutto, caratteriali. Corrispondente a lungo di un
affettuoso e ammirato Sciascia, patrocinato a Roma da conterranei illustri,
Répaci, Altomonte, subito in gara al premio Viareggio, all’esordio nel 1952 con
l’opera prima “Le cinque fiale”, candidato da Répaci. E tuttavia: non sarebbe
stata un’altra storia se il Viareggio lo avesse vinto – lo perse per un solo
voto, gli mancò quello del proponente Répaci? Il destino a volte è insormontabile.
L’infanzia più di
ogni altra cosa era stata il paradiso – o l’innocenza smarrita, pur tra
violenze e imprudenze. In ospedale a Roma, nel 1949, “sollecitato da una
sottile pena”, chiede ai compagni di degenza quali giochi praticassero da ragazzi.
“Che giochi?” fu la risposta. Lui era stato felice, solo lui - “I miei compagni
era nati vecchi”. Salerno è in grado di ricostruire alcuni giochi che Zappone
menziona, ancora in uso a metà Novecento, ma sembrano arcani, tanto sanno di
remoto. La raccolta è anche di antropologia viva.
Domenico Zappone, Le maschere del saracino, Rubbettino,
pp.128 € 10
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