giovedì 28 aprile 2016

Quante risate prima del suicidio

Una buona metà di queste prose sono già confluite nella raccolta precedente curata da Santino Salerno, “Il cavallo Ungaretti”. Ma si leggono anche esse con gusto. Di “ironia corrosiva” e con qualche “eccesso”, come avverte il curatore, ma di straordinaria fantasia e dominio del linguaggio, capace di sbalzare gli aneddoti e i personaggi più insignificanti, facendoli straordinari, per bislaccheria ugualmente che nell’ordinario, e  inverosimili perché veri, reali.
Ma Zappone è anche l’enigma del suicidio. Nel 1976, a 65 anni, senza ragione percepita o immediata, dopo una vita intraprendente, benché sempre a metà: Zappone osava e poi si fermava. Se una vita non spiega il suicidio, argomenta Salerno, un suicidio spiega una vita: l’inquietudine dietro il sorriso è stato il suo demone costante, “un dissonante rapporto con la vita”, dietro l’arguzia e l’irrisione. Dietro la “zannella”, lo scherzo bonario che è per i molti un abito mentale locale, da cui Zappone, attestava Totò Delfino che molto lo frequentò in attività giornalistiche, non sapeva e non voleva separarsi. “Lo scherzo non conosce altro scopo che il suo proprio esistere”, stabilisce Jean Paul, lo scrittore scherzoso per eccellenza. O il segno non è il lutto, la luttuosità?
“Assurdo” è la parola più ricorrente nei suoi scritti, nota il curatore. Ed è una della chiavi narrative di Zappone, la “scoperta” del lato assurdo delle cose. Ma un’altra è la giocosità – il riso più che il sarcasmo. E sempre la memoria compiaciuta, netta, consolatoria: i giochi da ragazzi, bradi a Palmi tra monte e mari, “una volta il mondo era popolato di amici”, e “il paese a quei tempi era nelle nostre mani”, i “Giganti” della festa, il cerimoniale dell’uovo fresco rosolato al braciere, i deserti che il terremoto provoca, di affetti nonché di cose, la città nel suo ricostituirsi post-distruzione (terremoto, bombardamenti), la salsiccia, la vendemmia, la campagna fradicia di fine autunno, le violette di campo, gli usi propiziatori (il fuoco dell’ultimo sabato di luglio), e sempre la presenza amica del padre. Più alcuni ritratti per qualche aspetto memorabili, nella seconda metà, quella nuova, della raccolta. Cilea riservato, la gloria locale a cui tutto viene intestato. Répaci frantoiano, incapace per anni di venire a capo delle misure borboniche per la stima e la raccolta delle ulive, al punto da non saperne calcolare la resa.
La presentazione di Salerno è un racconto del racconto. Zappone fu famoso negli anni 1950 per una rubrica alla Rai regionale, dove suicidò un pesce spada, e fece attraversare lo Stretto a nuoto a un cane fedele, che il padrone aveva abbandonato in Sicilia non potendosi permettere la tassa comunale, da Messina a Scilla. Due storie che valsero, racconta Salerno, “a Giuseppe Gagliostro, arpionatore di Palmi, ignaro del fantomatico suicidio del pescespada, e Rocco Gallì di Scilla, proprietario di Bob, il cane che il mare lo aveva sempre guardato a debita distanza, anch’egli ignaro dell’abbandono,… l’assalto di uno stuolo d’inviati speciali che invasero Scilla e Palmi” – “Rocco Gallì, in particolare, fu destinatario di centinaia di lettere piene d’insulti…. Un avvocato, indignatissimo, gli inviò dal Cairo una banconota con un lapidario messaggio: «sfamati e sfamalo!»”. Uno scrittore ancora in grado di “farsi” la realtà, la sua realtà – così come “faceva” la cronaca, come attestava amabilmente Totò Delfino, suo compagno di reportages giornalistici.
Un narratore “nato” – uno dei tanti – inabissatosi con la sua terra, la Calabria, per una sussidenza inarrestabile. Scrittore di molti mondi – l’ultimo suo pezzo, qui non incluso, pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” il 12 ottobre 1976, venti giorni prima del suicidio, è “Stringente malia di Praga, città di alchimisti e di maghi” . Ma più del suo mondo: “una Calabria”, nota Salerno, “d’altri tempi, una regione in bianco e nero, vista dal vivo in tutta la sua carica di umanità, di fede, di caparbietà, di miseria, di cultura popolare e di cultura alta, e soprattutto di dignità”. Soprattutto di dignità, il bene perduto. Da un’umanità mite, tanto da farsene una colpa - probabilmente la colpa. Troppo: romantica, malinconica, e per questo succube. Non facinorosa, al contrario: “nonviolenta”. Aspetta il raggio verde. Guarda il mare, le isole, lo Stretto, l’Etna. Si culla nelle tradizioni e nel mito. Preda offrendosi senza difese alla violenza.
Zappone rimase ai margini per problemi, soprattutto, caratteriali. Corrispondente a lungo di un affettuoso e ammirato Sciascia, patrocinato a Roma da conterranei illustri, Répaci, Altomonte, subito in gara al premio Viareggio, all’esordio nel 1952 con l’opera prima “Le cinque fiale”, candidato da Répaci. E tuttavia: non sarebbe stata un’altra storia se il Viareggio lo avesse vinto – lo perse per un solo voto, gli mancò quello del proponente Répaci? Il destino a volte è insormontabile.
L’infanzia più di ogni altra cosa era stata il paradiso – o l’innocenza smarrita, pur tra violenze e imprudenze. In ospedale a Roma, nel 1949, “sollecitato da una sottile pena”, chiede ai compagni di degenza quali giochi praticassero da ragazzi. “Che giochi?” fu la risposta. Lui era stato felice, solo lui - “I miei compagni era nati vecchi”. Salerno è in grado di ricostruire alcuni giochi che Zappone menziona, ancora in uso a metà Novecento, ma sembrano arcani, tanto sanno di remoto. La raccolta è anche di antropologia viva.
Domenico Zappone, Le maschere del saracino, Rubbettino, pp.128 € 10

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