Due volti di
Céline, benché sullo stesso fondo, di cupa disperazione, come un hangover dopo
il successo inebriante del “Viaggio al temine della notte” - le lettere coprono
singolarmente gli anni dal 1932 in poi. Sempre attento, anche se in rapporti
plurigamici, e compassionevole - paterno lo dice un suo affettuoso critico, il
diplomatico Paul Del Perugia, in un vecchio saggio quarant’anni fa, quando una
parte di queste lettere fu pubblicata nei Cahiers de l’Herne. Ma è uno con le
corrispondenti ebree, Erika Irrgang, N. - alle quali pure non risparmia gli
oltraggi sessuali, ma senza cattiveria, è la sua maniera di essere a letto. E
presto, robustamente, antihitleriano, senza mai far caso dell’ebraismo, se non
appunto per deprecare l’antisemitismo. A esse presenta perfino le “Bagattelle”
senza vergogna. Convincente, tanto che entrambe ne hanno conservato le lettere,
e per prime le hanno rese pubbliche, senza vergogna, come omaggio all’autore
dopo l’epurazione e l’ostracismo. È un altro con le corrispondenti “bianche”,
con Karen Marie Jensen, e anche con Evelyne Pollet: con esse schiera le
“Bagattelle”, e si schiera apertamente, nell’antisemitismo. Praticamente in
contemporanea. Nel mezzo la breve intensa corrispondenza con la giovanissima
pianista Lucienne Delforge, come fu intensa la relazione: lo stesso Céline vi
misura, nelle poche lettere rimaste, che Delforge rimpolpa con una precisa
testimonianza a uno dei due curatori della raccolta, l’abisso che separa
l’innocenza di Lucienne - l’avvenire incontaminato, l’applicazione,
l’entusiasmo - col suo cinismo di “vecchio”, a quarant’anni, refoulé.
Lettere ripetitive,
come è normale nelle corrispondenze continutive. Di lettura atroce in questa
edizione, con le note in fondo al libro. Anche se, come tutto di Céline, si
leggono di corsa. Una serie di selfie
rivelatori. Atteggiati ma veritieri. “In realtà sono un malato cronico”,
ottobre 1932. Con “un passato di problemi tremendi, d’animale braccato”. E “ho
voglia di morire più che di vivere”. Disamorato
- a N., con cui è andato a letto e che continua a corteggiare: “Sono andato
a letto con quasi tutte le donne attraenti che conosco. E lei, modestamente, lo
sa bene. È per me solo una conversazione un po’ più sincera delle altre, una conversazione
sui popo”. Al debutto, trionfale, col “Viaggio”
è già nauseato: “Il mio disprezzo della letteratura è grande”.
Poiché non è posa,
questa insistenza pone un problema biografico grosso, che le grosse biografie
hanno trascurato, anche se la raccolta, a cura di Colin W. Nettelbeck e Henri Thyssens,
è del 1979. La corrispondenza in genere di Céline è trascurata, benché fosse un
epistolografo: quella con Milton Hindus,
quella con alcuni camerati di gavetta, quella arrabbiata degli anni di
proscrizione in Danimarca, ma non una raccolta ragionata. C’è qui molto il
culto della bellezza del corpo, altro fattore unificante, céliniano, col
maledettismo. C’è la forte carica di empatia dello scrittore già affermato con
conoscenze occasionali o remote, come di un lupo solitario. E c’è, appunto,
questa doppia personalità. Che non è furbizia di seduttore, e allora tanto più
è da indagare.
Lo stesso per l’antisemitismo.
Scrive sempre preoccupato contro Hitler, e l’insorgente fascismo in Francia.
Già teme la censura. Anzi la lamenta per il “Viaggio” in Germania. A N. nella
primavera del 1935 lamenta “un mondo atroce e pieno di minacce” - nel quale “cretini
e dementi che hanno passato la quarantina” sono “indotti ad andare a passo di
marcia”. A Erika Irrgang il consiglio è di “continuare a perseverare come
un’Ebrea con ogni mezzo per assicurarsi una vita agiata”. Quest’amicizia, scrive
anche, considera speciale “per via credo del tanto che abbiamo in comune. Solo
che lei è più giovane (per fortuna!) e farà più strada – se si mantiene ferma
nel suo proposito, come un’ebrea”. Nell’ottobre
1936, di ritorno dalla Russia, scrive a N., austriaca, ebrea, che ha dovuto
riparare a Londra per sfuggire al razzismo: “Ti avrei volentieri anche sposata,
N., se fossi stato ricco”. Ma ha già “scoperto”, a Mosca, la “giudeocrazia”.
L’ultima lettera a
N:, 21 febbraio 1939, è un concentrato della sua dissociazione. Depreca le “atrocità”
di cui N. è vittima, e nello stesso tempo lamenta di aver perso tutti gli
incarichi pubblici e di essere sottoposto a processo “in conseguenza dei mio
atteggiamento antisemtita” – aggiungendo lieve: “Vede che anche gli ebrei sono
dei persecutori… purtroppo!”. Due anni prima scherzava, ma non del tutto, sulle
sue ambivalenze: “Non sarò mai veramente mostruoso come Wagner, di cui recentemente
leggevo la Storia clinica. Ma comincio a dubitare di me. Voglio continuare a
essere orribile per quanto mi consentono i miei modesti doni – in modo limitato
cioè”.
N., che non ha
voluto dire il suo nome, ha conservato e pubblicato le lettere di Céline,
nonché il taccuino dei loro incontri parigini nel 1932, e ne ha scritto bene dopo
morto, nel 1975, sulla “Nouvelle Revue Française”, affettuosa malgrado tutto. Dopo
il primo a Parigi, hanno avuto altri incontri, a Vienna, la sua città, ancora
nel 1932, poi nel 1933, e due volte nel 1935, a Innsbruck e Salisburgo. Alla
fine del 1938 ha appreso dei libri antisemiti di Céline – gliene sc rive lui
stesso. Dopo che suo marito è morto a Dachau, e lei stessa è in fuga
dall’Austria, con un figlio.
Dirlo schizoide non
si può, è ben Céline. Lui si vuole qui spesso “depresso”, e “stanco”. Ma depresso
nemmeno si può: scriveva molto, molto bene, curato sempre, anche nelle lettere.
Lucienne Delforge se ne allontanò impaurita dall’ipocondria, in forme
paranoiche, anche aggressive. Che altro? La svolta viene con la guerra. Che qui
antivede con esattezza: la “prossima guerra” annuncia già a giugno 1933, dopo l’avvento
di Hitler, e sei mesi dopo specifica che “l’unione europea si farà nel sangue”,
esattamente “fra cinque o sei anni”, 1939-1940.
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