martedì 10 maggio 2016

Céline tanto buono da essere doppio

Due volti di Céline, benché sullo stesso fondo, di cupa disperazione, come un hangover dopo il successo inebriante del “Viaggio al temine della notte” - le lettere coprono singolarmente gli anni dal 1932 in poi. Sempre attento, anche se in rapporti plurigamici, e compassionevole - paterno lo dice un suo affettuoso critico, il diplomatico Paul Del Perugia, in un vecchio saggio quarant’anni fa, quando una parte di queste lettere fu pubblicata nei Cahiers de l’Herne. Ma è uno con le corrispondenti ebree, Erika Irrgang, N. - alle quali pure non risparmia gli oltraggi sessuali, ma senza cattiveria, è la sua maniera di essere a letto. E presto, robustamente, antihitleriano, senza mai far caso dell’ebraismo, se non appunto per deprecare l’antisemitismo. A esse presenta perfino le “Bagattelle” senza vergogna. Convincente, tanto che entrambe ne hanno conservato le lettere, e per prime le hanno rese pubbliche, senza vergogna, come omaggio all’autore dopo l’epurazione e l’ostracismo. È un altro con le corrispondenti “bianche”, con Karen Marie Jensen, e anche con Evelyne Pollet: con esse schiera le “Bagattelle”, e si schiera apertamente, nell’antisemitismo. Praticamente in contemporanea. Nel mezzo la breve intensa corrispondenza con la giovanissima pianista Lucienne Delforge, come fu intensa la relazione: lo stesso Céline vi misura, nelle poche lettere rimaste, che Delforge rimpolpa con una precisa testimonianza a uno dei due curatori della raccolta, l’abisso che separa l’innocenza di Lucienne - l’avvenire incontaminato, l’applicazione, l’entusiasmo - col suo cinismo di “vecchio”, a quarant’anni, refoulé.
Lettere ripetitive, come è normale nelle corrispondenze continutive. Di lettura atroce in questa edizione, con le note in fondo al libro. Anche se, come tutto di Céline, si leggono di corsa. Una serie di selfie rivelatori. Atteggiati ma veritieri. “In realtà sono un malato cronico”, ottobre 1932. Con “un passato di problemi tremendi, d’animale braccato”. E “ho voglia di morire più che di vivere”. Disamorato  - a N., con cui è andato a letto e che continua a corteggiare: “Sono andato a letto con quasi tutte le donne attraenti che conosco. E lei, modestamente, lo sa bene. È per me solo una conversazione un po’ più sincera delle altre, una conversazione sui popo”. Al debutto, trionfale, col  “Viaggio” è già nauseato: “Il mio disprezzo della letteratura è grande”.
Poiché non è posa, questa insistenza pone un problema biografico grosso, che le grosse biografie hanno trascurato, anche se la raccolta, a cura di Colin W. Nettelbeck e Henri Thyssens, è del 1979. La corrispondenza in genere di Céline è trascurata, benché fosse un epistolografo: quella con Milton Hindus,  quella con alcuni camerati di gavetta, quella arrabbiata degli anni di proscrizione in Danimarca, ma non una raccolta ragionata. C’è qui molto il culto della bellezza del corpo, altro fattore unificante, céliniano, col maledettismo. C’è la forte carica di empatia dello scrittore già affermato con conoscenze occasionali o remote, come di un lupo solitario. E c’è, appunto, questa doppia personalità. Che non è furbizia di seduttore, e allora tanto più è da indagare.
Lo stesso per l’antisemitismo. Scrive sempre preoccupato contro Hitler, e l’insorgente fascismo in Francia. Già teme la censura. Anzi la lamenta per il “Viaggio” in Germania. A N. nella primavera del 1935 lamenta “un mondo atroce e pieno di minacce” - nel quale “cretini e dementi che hanno passato la quarantina” sono “indotti ad andare a passo di marcia”. A Erika Irrgang il consiglio è di “continuare a perseverare come un’Ebrea  con ogni mezzo per assicurarsi una vita agiata”. Quest’amicizia, scrive anche, considera speciale “per via credo del tanto che abbiamo in comune. Solo che lei è più giovane (per fortuna!) e farà più strada – se si mantiene ferma nel suo proposito, come un’ebrea”. Nell’ottobre 1936, di ritorno dalla Russia, scrive a N., austriaca, ebrea, che ha dovuto riparare a Londra per sfuggire al razzismo: “Ti avrei volentieri anche sposata, N., se fossi stato ricco”. Ma ha già “scoperto”, a Mosca, la “giudeocrazia”.
L’ultima lettera a N:, 21 febbraio 1939, è un concentrato della sua dissociazione. Depreca le “atrocità” di cui N. è vittima, e nello stesso tempo lamenta di aver perso tutti gli incarichi pubblici e di essere sottoposto a processo “in conseguenza dei mio atteggiamento antisemtita” – aggiungendo lieve: “Vede che anche gli ebrei sono dei persecutori… purtroppo!”. Due anni prima scherzava, ma non del tutto, sulle sue ambivalenze: “Non sarò mai veramente mostruoso come Wagner, di cui recentemente leggevo la Storia clinica. Ma comincio a dubitare di me. Voglio continuare a essere orribile per quanto mi consentono i miei modesti doni – in modo limitato cioè”.
N., che non ha voluto dire il suo nome, ha conservato e pubblicato le lettere di Céline, nonché il taccuino dei loro incontri parigini nel 1932, e ne ha scritto bene dopo morto, nel 1975, sulla “Nouvelle Revue Française”, affettuosa malgrado tutto. Dopo il primo a Parigi, hanno avuto altri incontri, a Vienna, la sua città, ancora nel 1932, poi nel 1933, e due volte nel 1935, a Innsbruck e Salisburgo. Alla fine del 1938 ha appreso dei libri antisemiti di Céline – gliene sc rive lui stesso. Dopo che suo marito è morto a Dachau, e lei stessa è in fuga dall’Austria, con un figlio.

Dirlo schizoide non si può, è ben Céline. Lui si vuole qui spesso “depresso”, e “stanco”. Ma depresso nemmeno si può: scriveva molto, molto bene, curato sempre, anche nelle lettere. Lucienne Delforge se ne allontanò impaurita dall’ipocondria, in forme paranoiche, anche aggressive. Che altro? La svolta viene con la guerra. Che qui antivede con esattezza: la “prossima guerra” annuncia già a giugno 1933, dopo l’avvento di Hitler, e sei mesi dopo specifica che “l’unione europea si farà nel sangue”, esattamente “fra cinque o sei anni”, 1939-1940.
Céline, Lettere alle amiche, Adelphi pp. 257 € 18

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