Una silloge
dell’epistolario per scuole di scrittura. Con due note introduttive e
un’appendice (“Un medico all’inferno”) di Piero Brunello. Collaziona i due
brevi manuali di minimun fax una dozzina d’anni fa: ”Senza trama e senza
finale. 99 consigli di scrittura” e “Scarpe buone e un quaderno di appunti.
Come fare un reportage”. Quest’ultimo montato con materiali preparatori
dell’inchiesta che Čechov condusse a Sachalin, l’isola-penitenziario sul
Pacifico, nel 1890, e un’antologia dal suo “L’isola di Sachalin”.
Un Čechov
inevitabilmente ripetitivo, in questa funzione didascalica, svuotato. Gli
estratti sono preceduti da fastidiose sintesi didattiche, specie nella seconda
parte: “Leggere e riassumere”, “Cambiare aria”, ”Usare il tatto”, “Usare l’olfatto”…
Di consigli di scrittura che sarebbero, per il curatore Piero Brunello, anche
consigli di vita. Una silloge tuttavia non dozzinale, come sempre per Čechov,
che sopravvive ai čechoviani: anche qui è tutti noi, misurato, inquieto, acuto,
mite, arguto. “L’isola di Sachalin”.mantiene, malgrado la frantumazione, una
sua dignità di racconto: un’isola dei morti, di deportati e ex deportati –
sull’esempio dell’Australia che Čechov non cita, ma senza la fertilità del
clima e del suolo. Il cui progetto è dovuto a un agronomo e filantropo di cui Čechov
ha stima: Michail Semënovič Micul’ dice “uomo di grande forza morale, grande lavoratore
nonché ottimista e idealista appassionato”. O del male effetto del bene, che a
ben guardare è il filo rosso di Čechov.
Il suo mondo
peraltro sembra stranamente quello di oggi. Della legge applicata a caso. Della
burocrazia ottusa, malvagia per stupidità. Dell’abiezione senza rimorso. Specialmente
contemporaneo il suo intellettuale: “C’è nella nostra diletta patria una
grandissima povertà di fatti e una gran ricchezza di ragionamenti d’ogni
specie”. L’intellettuale di Čechov è quello della sintesi che ne fa Nabokov: “È
infelice quest’uomo, e rende infelici gli altri; non ama i propri fratelli,
neanche le persone che gli sono più vicine, ma solo le più remote. La sorte di
un negro in un paese lontano, di un coolie cinese, di un operaio degli Urali, gli causa una fitta di
sofferenza morale più acuta che non le disavventure del vicino o i guai della
moglie”.
Di sé del resto
Čechov scrive, al suo editore Suvorin: “Non abbiamo scopi né immediati né
lontani, nella nostra anima c’è il vuoto
assoluto. Non abbiamo concezione politica, non crediamo nella rivoluzione, non abbiamo un Dio, non temiamo i fantasmi e,
quanto a me, non temo neppure la morte né la cecità”.
Anton Čechov, Né per fama, né per denaro, Beat, pp.
209 € 9
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