La deflazione è irredimibile per aver
cancellato l’inflazione? D’arbitrio, statisticamente. È la ragione più
appropriata.
C’è una ragione se le politiche monetarie sono
d’improvviso inerti. Incide l’obsolescenza della “curva di Philips”, che lega
l’inflazione alla riduzione della disoccupazione: l’occupazione cresce un po’
ovunque, i consumi e i prezzi no. Ma se uno dei canoni della politica monetaria
non funziona più è perché l’effetto reddito della maggiore occupazione è stato
anch’esso abolito, insieme con l’inflazione.
La deflazione è indomabile perché l’inflazione
è stata abolita. Da quasi un quarto di secolo. Statisticamente. In parallelo
con la liberalizzazione del lavoro e la compressione dei salti, del reddito
disponibile. Mentre la stabilizzazione monetaria introdotta dall’euro ha agito
a doppio taglio: alla riduzione dei tassi passivi, importante soprattutto per il
debito pubblico, ha accoppiato la stabilizzazione del debito privato nel senso
di un onere sempre pesante, a fronte della compressione del reddito per il blocco e anzi la riduzione salariale, e
per il precariato diffuso – l’onerosità del mutuo si alleggeriva dopo
quattro-cinque anni, ora è un cappio a vita, a vita del mutuo.
L’inflazione è stata abolita peraltro
soprattutto statisticamente. Con l’euro i prezzi sono raddoppiati, ma non l’abbiamo
sputo. Il petrolio è salito a 100 e più dollari, per cinque e più anni, ma Eurostat
ha fatto finta di nulla: nessun effetto sui prezzi, sui prezzi rilevati. Questa cancellazione si vuole virtuosa, come avven to della stabilità, ma ha eroso tutti i margini reali - reali in termini economici - e ora l’economia è inerte. Dopo che anche le banche, col credito, si sono assottigliate.
Si capisce che gli sforzi della Bce siano a
effetto nullo: c’è da smaltire un arretrato pesante. La situazione era stata
anticipata dal Giappone, da un quarto di secolo ormai in deflazione. La Banca
del Giappone ha fatto tutto quello che la Bce sta facendo, per prima e con
continuità, ma senza effetti appezzabili. Il quantitative easing, la moltiplicazione della moneta, dal 2001.
L’acquisto massiccio dei titoli pubblici pure. Al 2012 ne possedeva il 35 per
cento come quota del pil, contro il 25 per cento massimo delle altre banche
centrali. Dopo il 2013 ha raddoppiato la quota, al 77 per cento – il debito
pubblico giapponese è il 250 del pil. Ma con esiti modesti o nulli – prezzi
positivi, nei mesi buoni, dello 0,1-0,2 per cento. È che prima il
Giappone pure aveva cancellato l’inflazione, statisticamente, e col lavoro e il
salario non più protetti si è inabissato nella stagnazione economica,
alimentata dalla deflazione: il cavallo non beve.Se il mercato non fosse una ideologia, saprebbe che la stabilità non si impone, e come cura può essere perniciosa.
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