È
stata la recessione più dura da quando se ne fa il censimento, da quasi un secolo
– peggiore di quella degli anni 1930, dopo il crac del 1929. Anzi, non è stata,
è la recessione più dura, perché non è finita.
Ci voleva un presidente indipendente dell’Istat per censire la realtà: “L’Italia
sta finalmente uscendo da una recessione lunga e profonda senza termini di
paragone nella storia di cui l’Istat è stato testimone in questi 90 anni”. C’è
“un primo, importante momento di crescita persistente”, ma “a bassa
intensità". E soprattutto senza
futuro.
Non c’è occupazione nuova. Il tasso cresce giusto perché le
riforme pensionistiche hanno allungato la vita lavorativa di chi è già al
lavoro. L’occupazione dei giovani cala “drammaticamente”. Non ci sono le scene di panico
e di disperazione degli anni 1930 perché si sono gli ammortizzatori sociali e, soprattutto, c’è la “rendita famiglia”, ciò
che le famiglie hanno risparmiato e accumulato negli anni buoni. Ma non si crea
niente. I trentenni rimangono a casa dei genitori, non si formano più famiglie,
non si fanno più figli. “Nel 2025 il tasso di occupazione resterà prossimo a quello
del 2010”, cioè bassissimo, con l’effetto reddito correlato, “ a meno che non
intervengano politiche di sostegno alla domanda di beni e servizi e un ampliamento
della base produttiva". Politiche di cui non si vede nessun segnale.
La crisi drammatica del crac del 1929 comportò interventi
drammatici. Oggi, le reti di protezione di cui le economie si sono dotate alimentano
purtroppo l’inerzia. Soprattutto in Europa, l’unica delle grandi aree
economiche che si dibatte ancora nella crisi, e non se ne rende nemmeno conto.
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