Una meditazione sulla
morte – l’innominata, anche da Andrea Tagliapietra nella lunga postfazione. Sulla
“fine di tutte le cose in quanto
realtà temporali e come oggetti di possibile esperienza”. Il tempo non finisce
nell’eternità, semmai si perpetua - della kantiana immortalità la migliore sintesi è di Tolstòj: “Tutti noi (uomini e animali) vivremo in un
principio (ragione, amore), l’essenza e il fine del quale costituisce per noi
un mistero”. .
In parallelo, è la
“fine del mondo”, psicosi millenaristica. Che Kant trancia con la sua sottile
ironia: perché il mondo si aspetta sempre una fine del mondo. Non si aspetta,
teme. “La ragione ha anche i suoi misteri”, concede. Ma perché vivere col senso
della fine, e della fine come una condanna? Sottilmente saldo, sulla linea
della “Religione entro i limiti della sola ragione”, di cui il breve saggio è
una prosecuzione: ancorato alla vita sovrasensibile – all’aldilà.
Le più pagine deve
però spendere per giustificare l’“Apocalisse”, la fine delle fini e la minaccia
delle minacce. L’“Apocalisse” non vuole dire, argomenta, ciò che dice, sarebbe
irragionevole: “È una contraddizione comandare
a qualcuno non solo di fare qualcosa, ma anche comandargli di farlo
volentieri”. Anzi, di questo fa merito ai Vangeli: “Il cristianesimo, oltre al
grande rispetto che infonde irresistibilmente la santità delle sue leggi, ha in
sé anche qualcosa di amabile”.
Qui l’argomentazione
è meno vispa, Kant torna ai lunghi incisi e alle subordinate. Ma è ben vero che
il sovrasensibile non ci può essere ostile – il sovrasensibile non siamo noi?
Immanuel Kant, La fine di tutte le cose, Bollati
Boringhieri, pp. 125 € 7
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