Le tabelle Istat sui reati per 100 mila
abitanti vedono in testa Milano - seguita da Bologna e Torino. Ultime in
classifica Palermo e Napoli. Si tratta del complesso di reati denunciati alle
autorità giudiziarie dalle forze di polizia, non pesate per gravità. Molte
denunce devono anche ritenersi indotte dalla copertura assicurativa. Ma il
divario resta enorme, quasi il doppio fra Milano e Napoli: 8.088 denunce per
100 mila abitanti a Milano e provincia contro 4.365 per Napoli e la sua
terribile provincia – idem per Palermo e famigerati dintorni, dove i reati sono
stati 4.519 per 100 mila abitanti.
Malgrado
la Prammatica Sanzione di Carlo III di Borbone del 1759 – nessun Borbone deve
unificare le due corone, di Madrid e di Napoli – il re di Spagna Filippo VI è
anche Re delle due Siclie. Ha una cinquantina di titoli regali, ma quasi tutti
di entità geografiche non più esistenti.
Si studiava la Storia Diplomatica, la
Storia dei Trattati, la Storia dei Paesi Afroasiatici, la Storia d’Europa, ora
le cattedre diffuse tra i contemporaneisti sono la Storia delle Mafie, la
Storia della Mafia siciliana, la Storia del Crimine Organizzato. Non si può
dire che non abbiamo nessun primato culturale.
L’antimafia
delle banche
Monti ha costretto – ci ha tentato –
tutti in banca, anche i pensionati sociali. Dopodiché c’è stata una corsa, di
anziani e congiunti, a pagarle di meno. Ma come minimo la banca costa 200 euro
l’anno. Che sembra un pizzo piccolo ma è grande, se si moltiplica per milioni
di conti - la banca retail è furba. Nel nome dell’antiriciclaggio.
Anche l’uso limitato del contante serve
all’antiriciclaggio Di chi? Non si capisce, ma bisogna crederci. Serve però
anche a passare sempre dalla banca, carta di debito e di credito comprese.
Monti e chi per lui vogliono farci credere che hanno un occhio per tutte le
operazioni di spesa – miliardi ogni giorno? Magari ce l’ha per davvero, ma
nessuno lo usa – la tracciabilità può darsi che ci sia, ma non si ritraccia
niente. E dunque, quando si viene al dunque, l’antimafia è spuntata. Se ne
parla molto ma per altri scopi, l’antimafia è utile a molti.
I
pentiti alla guerra fredda
Alex Schwazer va all’Olimpiade a Rio
dopo la squalifica per doping - con disonore: troppi tentativi d’imbrogliare le
carte. Yuliya Rusanova pure, dopo una squalifica di due anni per doping. In una
“squadra di rifugiati”, sotto il patrocinio Cio.
È giusto, chi è condannato può
riabilitarsi. Non fosse che c’è il perdono per Schwazer, spergiuro e recidivo, e
si è inflessibili con Carolina Kostner, che non è colpevole di nulla ma era
innamorata di Alex. Kostner vene punita più di Schwazer erché non lo ha
denunciato: non si è “pentita”.
Rusanova, invece, è premiata perché è
una “pentita”. Una pentita russa, gestita dall’Fbi, in un sito segreto. Per
fare meglio la guerra alla Russia, allargandola allo sport.
Rusanova è moglie di Vitali Stepanov, tecnico
russo dell’antidoping. Dopo che la moglie è stata squalificata per due anni nel
2013 per doping, Stepanov ha preso contatto con la Wada, l’agenzia mondiale
antidoping, e si è detto disposto ad accusare la Russia di doping sistematico
nell’atletica, e forse in tutte le discipline, in cambio di protezione. Detto
e fatto. Interviste clamorose sono state preparate per Stepanov. Dopodiché l’autoesilio dei coniugi Stepanov è
avvenuto senza problemi, con visto turistico, e i coniugi, sotto la protezione
dell’Fbi, sono i testimoni d’accusa che hanno portato all’allontanamento
dell’atletica russa dalla gare internazionali e dall’Olimpiade brasiliana.
Lo sport non è stato immune alla guerra
fredda. Nemmeno l’Olimpiade. Nel 1980 l’Occidente boicottò l’Olimpiade di Mosca
per l’invasione dell’Afghanistan. Nel 1984 la Russia boicottò l’Olimpiade di
Los Angeles per rappresaglia. I pentiti dello sport nella guerra fredda sono
invece una novità totale, e nobilitano enormemente la professione.
Si può dire che ormai non c’è storia che
non sia fatta dai pentiti.
La
mafia degli incendi
Disattenzione, scoordinamento,
incapacità, scirocco? No, è il complotto perfetto, la Sicilia si assolve così.
Di chi è chiaro: dei mafiosi. Che
coalizzati e coordinati hanno appiccato il fuoco alla Sicilia. Sessanta bande
mafiose hanno appiccato sessanta incendi in tutta la Sicilia, con l’esclusione
del catanese – bisognerà rifletterci? Tutti insieme contemporaneamente, come
nelle migliori operazioni di guerra.
Come se i mafiosi si occupassero di
appiccare incendi. Oppure credessero ai giornali, secondo i quali dopo gli
incendi si costruisce. Fessi non sono.
La stupidità invece no, di chi brucia
stoppie e butta cicche accese, voluttuosamente, al vento caldo. Il piccolo
grande business no, degli spegnimenti e dei rimboschimenti.
Però, è vero quello che la Sicilia pensa
di se stessa, di avere intelligenza superiore. Quello mafioso sarà stato il più
grande business mai inventato: basta dire “mafia!”, e si guadagna. Magari poco,
ma è gratis.
Basta un po’ di vento caldo, che la
Sicilia non si fa mancare di questa stagione, e sessanta incendi scoppiano
indomati. Come farli fruttare? La mafia è d’ausilio.
Napoli
si piace lazzarona
“Tra
terzomondismo e tratti filoborbonici, l’ex Pm narciso ora corre da favorito”, è
il ritratto di De Magistris sul “Corriere della sera”. Di Marco Demarco, che
non sarà un simpatizzante ma conosce l’uomo e la città - del resto, avendolo avuto
giudice territoriale, non se ne può coltivare immagine diversa. De Magistris le
elezioni poi non le ha vinte, le ha stravinte. Uno che dovrebbe stare ar gabbio,
per le tante indagini false che s’è inventate a Catanzaro, quando l’hanno
costretto a lavorare – perché lo riportassero a casa.
È troppo facile partire da qui per
individuare il malessere di Napoli inguaribile. Ma non è possibile non tenerne
conto: la città non rinuncia al suo lazzaronismo.
Questo è quello che più colpisce, più
dei macelli quasi quotidiani al mercatino della droga: la voglia satanica
non di migliorarsi ma di peggiorarsi. Quando il presidente Ciampi vent’anni fa
ne tentò la rinobilitazione, sindaco Bassolino, si fece presto a parlare di
Rinascimento, le qualità c’erano. Ma anche gli istinti brutali: la città
peggiore reagì con immediatezza e violenza, inabissando il Rinascimento e
Bassolino, sprofondandosi nei rifiuti – nel ridicolo più ancora che nelle puzze
e i veleni. Il successore di Ciampi, il napoletano Napolitano, più che altro la
eviterà.
Città inurbana
Era lazzarona
Napoli un tempo con un filo di vergogna. Se non altro, era critica. Lo è ora
compiaciuta. Troppo facile anche l’accostamento di de Magistris a Masaniello,
ma che altro se ne può dire. Il de minuscolo, si raccomanda.
La città italiana di maggiore e più
antica conformazione urbana non ha nulla dell’urbanismo. Della capacità
dell’habitat urbano di amalgamare e socializzare. Si prenda al confronto Roma,
con le sue baraccopoli ancora al tempo di Pasolini e di Paolo VI, che ne impose
il risanamento, quindi non più di cinquant’anni fa. Che ora sono periferie
urbanizzate, alcune anche trendy,
con ritrovi, parchi, chiese, scuole, edifici pubblici e privati curati, piazze,
eventi - hanno locali perfino gourmet,
segno che il reddito medio non è inferiore. Con “la periferia riannodata al
centro cittadino”, come chiede Renzo Piano.
Napoli no. Non aveva borgate. Aveva un
centro storico intasato, Quartieri Spagnoli, Forcella, etc., è stata provveduta
di ampi quartieri nuovi, trenta, venti anni fa, dopo il terremoto, e li ha
degradati, subito, tutti. Fatto unico in tutta Europa, a livello del peggior
Terzo mondo, ha in questi quartieri un abbandono scolastico del 30 per cento. Napoli,
tutta la città, un milione di anime, ha secondo Save the Children un abbandono
scolastico del 20 per cento – se anche in realtà è la metà è sempre enorme.
La
povertà affluente
Si dice la povertà. I “disoccupati
organizzati”, gli ambulanti, etc. Ma Napoli è pur sempre la capitale delle
lavorazioni à façon nel tessile, e
dell’industria della copia. L’applicazione non manca: il “napoletano” è
ingegnoso e sa essere costante. In evasione fiscale e anche legale, ma sempre
indice di capacità, industriosità - e tanto più per dover operare
nell’illegalità. E di reddito, seppure nero. Nel carcere di Poggioreale entrano
ogni anno otto milioni di euro di aiuti ai detenuti.
Questa Napoli infangata nella popolosità
peraltro non emigra. Molto meno, e con più resistenze, che non i calabresi, o i
siciliani, o i pugliesi. Anche il napoletano che lavora a Roma: si sobbarca al pendolarismo,
non lascia. Ma è inetto in casa. A meno di non teorizzare un vizio del male
congenito, una tabe ereditaria.
Emigra l’“altra Napoli”. Che qui non è
da intendere come marginale e subordinata, ma d’eccellenza e di comando.
Prefetti, questori, giudici di ogni tipo e grado in tutta Italia sono
o sono stati napoletani. Specie ai gradi di comando: capi della Polizia, capi
dei ministeri, Corte Costituzionale, Cassazione, Tribunali, Procure, giornali. E
anche questo non si capisce.
C’è un pulviscolo mafioso, che si
riproduce come gli acari? Può essere, la partenogenesi è operosa in natura. Ma
molto è pauperismo sterile: sono ladro perché sono povero, vecchia solfa,
vecchissima. Mentre è solo violenza. E sempre di sottoproletari: i cadaveri di
oggi come quelli degli altri giorni parlano chiaro. Perché si vuole negarlo?
Napoli è una città probabilmente ricca, se emergesse tutto il grigio e il nero.
Che però si vuole in mano a poche decine di sottoproletari rozzi e brutali –
tanto più perché si vergognano di se stessi.
Gomorra
La serie tv “Gomorra” nobilita la
malavita. La porta al livello dei Supereroi, seppure del male. Fredda ma
inflessibile, consequenziale. Fa
sempre quello che si propone, non c’è caso o forza avversa che non glielo
consenta. Mentre quella reale è incapacità, stupidità, brutalità: distruttiva
per essere autodistruttiva. Più ancora la nobilitano le critiche, tv e di
costume: si parla di fascino della malavita, di un’attrazione satanica alla
moda dell’Is, come se le reclute fossero migliaia, o anche centinaia. Mentre
sono poveracci, le camorre sono solo sottoproletariato, e dei più sguarniti. I
lazzaroni di un tempo. Che però vengono proposti come genia inestinguibile.
Guardando Napoli da fuori sembra di scansionare un libro di fantascienza.
Da tempo ormai immemorabile si mostra Scampia
come simbolo del degrado. Ma questo è un altro discorso, dell’indigenza del
giornalismo, ripetitivo, disinformato. Scampia è un’ottima periferia, ben
connessa (tangenziale, autostrada, mezzi pubblici, compresa la metro), non un
mondo a parte. Dopo la “Gomorra” del libro, una dozzina d’anni fa, che ne fece
il centro della malavita, si è voluta animata da un civismo locale forsennato, con
un centinaio, forse duecento, associazioni o iniziative sociali locali. Non c’è
molto civismo locale nelle città italiane, non nella tradizione inglese o
americana, a Scampia c’è. È stata una delle prime periferie di Napoli, città
che era tutta centro: cresciuta negli anni Sessanta post-boom, e più dopo il
terremoto, a elevata intensità costruttiva, a iniziativa pubblica. Con un
intento buono: urbanizzare il sottoproletariato in simbiosi con la piccola
borghesia. Con qualche pecca: l’amianto incorporato nelle Vele, le piramidi
abitative – ma era un peccato comune. E con distrazioni assurde: ben collegata,
la “città” non aveva – e non ha: non ha una banca – praticamente servizi
privati. Non c’era nemmeno il tabaccaio, le sigarette si compravano perciò di
contrabbando, che a Scampia ha ripreso a fiorire.
A Scampia ci sono le mafie – c’erano.
Sì, i Licciardi, i Di Lauro. Ma nessuno purtroppo se ne occupava, prima delle
faide. È sempre così al Sud, quindi anche a Scampia. Di Lauro era personaggio
noto a Napoli, lo chiamavano “’o milionario”. E fino alla faida, assicura lo
storico Isaia Sales, “non ha mai avuto imputazioni legali di nessun tipo”.
Deindustrializzazione
La città ha avuto e ha problemi grossi.
Per primo la deindustrializzazione. A Napoli è stata radicale. Pomigliano
d’Arco occupava 40 mila metalmeccanici, ora arriva, i giorni giusti, a cinquemila,
tra Fiat-Chrysler e Alenia, indotto compreso. Bagnoli è stata chiusa. L’industria
conserviera è emigrata.
L’economista Mariano D’Antonio lasciava
la città trent’anni fa indignato che si pensasse di farne “un polo di camerieri”.
Ma anche questo disegno, se c’è stato, latita. Oltre che le bellezze naturali e
la cucina, la città ha un patrimonio culturale – quello che assicura il turismo
più ricco – incredibilmente vasto e attraente. Che però è solo testimone dell’incapacità
dei sindaci di gestire la deindustrializzazione: la città e dintorni, così
adatta ai servizi, è una enorme miniera a cielo aperto non sfruttata, di bellezze naturali, archeologiche,
artistiche, culinarie, musicali, per il tempo libero, etc.. Che però avrebbe bisogno
di un po’ di coraggio.
leuzzi@antiit.eu
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