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lunedì 20 giugno 2016

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (290)

Giuseppe Leuzzi

Le tabelle Istat sui reati per 100 mila abitanti vedono in testa Milano - seguita da Bologna e Torino. Ultime in classifica Palermo e Napoli. Si tratta del complesso di reati denunciati alle autorità giudiziarie dalle forze di polizia, non pesate per gravità. Molte denunce devono anche ritenersi indotte dalla copertura assicurativa. Ma il divario resta enorme, quasi il doppio fra Milano e Napoli: 8.088 denunce per 100 mila abitanti a Milano e provincia contro 4.365 per Napoli e la sua terribile provincia – idem per Palermo e famigerati dintorni, dove i reati sono stati 4.519 per 100 mila abitanti.

Malgrado la Prammatica Sanzione di Carlo III di Borbone del 1759 – nessun Borbone deve unificare le due corone, di Madrid e di Napoli – il re di Spagna Filippo VI è anche Re delle due Siclie. Ha una cinquantina di titoli regali, ma quasi tutti di entità geografiche non più esistenti. 

Si studiava la Storia Diplomatica, la Storia dei Trattati, la Storia dei Paesi Afroasiatici, la Storia d’Europa, ora le cattedre diffuse tra i contemporaneisti sono la Storia delle Mafie, la Storia della Mafia siciliana, la Storia del Crimine Organizzato. Non si può dire che non abbiamo nessun primato culturale.

L’antimafia delle banche
Monti ha costretto – ci ha tentato – tutti in banca, anche i pensionati sociali. Dopodiché c’è stata una corsa, di anziani e congiunti, a pagarle di meno. Ma come minimo la banca costa 200 euro l’anno. Che sembra un pizzo piccolo ma è grande, se si moltiplica per milioni di conti - la banca retail è furba. Nel nome dell’antiriciclaggio.
Anche l’uso limitato del contante serve all’antiriciclaggio Di chi? Non si capisce, ma bisogna crederci. Serve però anche a passare sempre dalla banca, carta di debito e di credito comprese. Monti e chi per lui vogliono farci credere che hanno un occhio per tutte le operazioni di spesa – miliardi ogni giorno? Magari ce l’ha per davvero, ma nessuno lo usa – la tracciabilità può darsi che ci sia, ma non si ritraccia niente. E dunque, quando si viene al dunque, l’antimafia è spuntata. Se ne parla molto ma per altri scopi, l’antimafia è utile a molti.

I pentiti alla guerra fredda
Alex Schwazer va all’Olimpiade a Rio dopo la squalifica per doping - con disonore: troppi tentativi d’imbrogliare le carte. Yuliya Rusanova pure, dopo una squalifica di due anni per doping. In una “squadra di rifugiati”, sotto il patrocinio Cio.
È giusto, chi è condannato può riabilitarsi. Non fosse che c’è il perdono per Schwazer, spergiuro e recidivo, e si è inflessibili con Carolina Kostner, che non è colpevole di nulla ma era innamorata di Alex. Kostner vene punita più di Schwazer erché non lo ha denunciato: non si è “pentita”.
Rusanova, invece, è premiata perché è una “pentita”. Una pentita russa, gestita dall’Fbi, in un sito segreto. Per fare meglio la guerra alla Russia, allargandola allo sport.
Rusanova è moglie di Vitali Stepanov, tecnico russo dell’antidoping. Dopo che la moglie è stata squalificata per due anni nel 2013 per doping, Stepanov ha preso contatto con la Wada, l’agenzia mondiale antidoping, e si è detto disposto ad accusare la Russia di doping sistematico nell’atletica, e forse in tutte le discipline, in cambio di protezione. Detto e fatto. Interviste clamorose sono state preparate per Stepanov. Dopodiché l’autoesilio dei coniugi Stepanov è avvenuto senza problemi, con visto turistico, e i coniugi, sotto la protezione dell’Fbi, sono i testimoni d’accusa che hanno portato all’allontanamento dell’atletica russa dalla gare internazionali e dall’Olimpiade brasiliana.
Lo sport non è stato immune alla guerra fredda. Nemmeno l’Olimpiade. Nel 1980 l’Occidente boicottò l’Olimpiade di Mosca per l’invasione dell’Afghanistan. Nel 1984 la Russia boicottò l’Olimpiade di Los Angeles per rappresaglia. I pentiti dello sport nella guerra fredda sono invece una novità totale, e nobilitano enormemente la professione.
Si può dire che ormai non c’è storia che non sia fatta dai pentiti.

La mafia degli incendi
Disattenzione, scoordinamento, incapacità, scirocco? No, è il complotto perfetto, la Sicilia si assolve così.
Di chi è chiaro: dei mafiosi. Che coalizzati e coordinati hanno appiccato il fuoco alla Sicilia. Sessanta bande mafiose hanno appiccato sessanta incendi in tutta la Sicilia, con l’esclusione del catanese – bisognerà rifletterci? Tutti insieme contemporaneamente, come nelle migliori operazioni di guerra.
Come se i mafiosi si occupassero di appiccare incendi. Oppure credessero ai giornali, secondo i quali dopo gli incendi si costruisce. Fessi non sono.
La stupidità invece no, di chi brucia stoppie e butta cicche accese, voluttuosamente, al vento caldo. Il piccolo grande business no, degli spegnimenti e dei rimboschimenti.
Però, è vero quello che la Sicilia pensa di se stessa, di avere intelligenza superiore. Quello mafioso sarà stato il più grande business mai inventato: basta dire “mafia!”, e si guadagna. Magari poco, ma è gratis.
Basta un po’ di vento caldo, che la Sicilia non si fa mancare di questa stagione, e sessanta incendi scoppiano indomati. Come farli fruttare? La mafia è d’ausilio.

Napoli si piace lazzarona
Tra terzomondismo e tratti filoborbonici, l’ex Pm narciso ora corre da favorito”, è il ritratto di De Magistris sul “Corriere della sera”. Di Marco Demarco, che non sarà un simpatizzante ma conosce l’uomo e la città - del resto, avendolo avuto giudice territoriale, non se ne può coltivare immagine diversa. De Magistris le elezioni poi non le ha vinte, le ha stravinte. Uno che dovrebbe stare ar gabbio, per le tante indagini false che s’è inventate a Catanzaro, quando l’hanno costretto a lavorare – perché lo riportassero a casa.
È troppo facile partire da qui per individuare il malessere di Napoli inguaribile. Ma non è possibile non tenerne conto: la città non rinuncia al suo lazzaronismo.
Questo è quello che più colpisce, più dei macelli quasi quotidiani al mercatino della droga: la voglia satanica non di migliorarsi ma di peggiorarsi. Quando il presidente Ciampi vent’anni fa ne tentò la rinobilitazione, sindaco Bassolino, si fece presto a parlare di Rinascimento, le qualità c’erano. Ma anche gli istinti brutali: la città peggiore reagì con immediatezza e violenza, inabissando il Rinascimento e Bassolino, sprofondandosi nei rifiuti – nel ridicolo più ancora che nelle puzze e i veleni. Il successore di Ciampi, il napoletano Napolitano, più che altro la eviterà.
Città inurbana
Era lazzarona Napoli un tempo con un filo di vergogna. Se non altro, era critica. Lo è ora compiaciuta. Troppo facile anche l’accostamento di de Magistris a Masaniello, ma che altro se ne può dire. Il de minuscolo, si raccomanda.
La città italiana di maggiore e più antica conformazione urbana non ha nulla dell’urbanismo. Della capacità dell’habitat urbano di amalgamare e socializzare. Si prenda al confronto Roma, con le sue baraccopoli ancora al tempo di Pasolini e di Paolo VI, che ne impose il risanamento, quindi non più di cinquant’anni fa. Che ora sono periferie urbanizzate, alcune anche trendy, con ritrovi, parchi, chiese, scuole, edifici pubblici e privati curati, piazze, eventi - hanno locali perfino gourmet, segno che il reddito medio non è inferiore. Con “la periferia riannodata al centro cittadino”, come chiede Renzo Piano.
Napoli no. Non aveva borgate. Aveva un centro storico intasato, Quartieri Spagnoli, Forcella, etc., è stata provveduta di ampi quartieri nuovi, trenta, venti anni fa, dopo il terremoto, e li ha degradati, subito, tutti. Fatto unico in tutta Europa, a livello del peggior Terzo mondo, ha in questi quartieri un abbandono scolastico del 30 per cento. Napoli, tutta la città, un milione di anime, ha secondo Save the Children un abbandono scolastico del 20 per cento – se anche in realtà è la metà è sempre enorme.
La povertà affluente
Si dice la povertà. I “disoccupati organizzati”, gli ambulanti, etc. Ma Napoli è pur sempre la capitale delle lavorazioni à façon nel tessile, e dell’industria della copia. L’applicazione non manca: il “napoletano” è ingegnoso e sa essere costante. In evasione fiscale e anche legale, ma sempre indice di capacità, industriosità - e tanto più per dover operare nell’illegalità. E di reddito, seppure nero. Nel carcere di Poggioreale entrano ogni anno otto milioni di euro di aiuti ai detenuti.
Questa Napoli infangata nella popolosità peraltro non emigra. Molto meno, e con più resistenze, che non i calabresi, o i siciliani, o i pugliesi. Anche il napoletano che lavora a Roma: si sobbarca al pendolarismo, non lascia. Ma è inetto in casa. A meno di non teorizzare un vizio del male congenito, una tabe ereditaria.
Emigra l’“altra Napoli”. Che qui non è da intendere come marginale e subordinata, ma d’eccellenza e di comando. Prefetti, questori, giudici di ogni tipo e grado in tutta Italia sono o sono stati napoletani. Specie ai gradi di comando: capi della Polizia, capi dei ministeri, Corte Costituzionale, Cassazione, Tribunali, Procure, giornali. E anche questo non si capisce.
C’è un pulviscolo mafioso, che si riproduce come gli acari? Può essere, la partenogenesi è operosa in natura. Ma molto è pauperismo sterile: sono ladro perché sono povero, vecchia solfa, vecchissima. Mentre è solo violenza. E sempre di sottoproletari: i cadaveri di oggi come quelli degli altri giorni parlano chiaro. Perché si vuole negarlo? Napoli è una città probabilmente ricca, se emergesse tutto il grigio e il nero. Che però si vuole in mano a poche decine di sottoproletari rozzi e brutali – tanto più perché si vergognano di se stessi.
Gomorra
La serie tv “Gomorra” nobilita la malavita. La porta al livello dei Supereroi, seppure del male. Fredda ma inflessibile, consequenziale. Fa sempre quello che si propone, non c’è caso o forza avversa che non glielo consenta. Mentre quella reale è incapacità, stupidità, brutalità: distruttiva per essere autodistruttiva. Più ancora la nobilitano le critiche, tv e di costume: si parla di fascino della malavita, di un’attrazione satanica alla moda dell’Is, come se le reclute fossero migliaia, o anche centinaia. Mentre sono poveracci, le camorre sono solo sottoproletariato, e dei più sguarniti. I lazzaroni di un tempo. Che però vengono proposti come genia inestinguibile. Guardando Napoli da fuori sembra di scansionare un libro di fantascienza.
Da tempo ormai immemorabile si mostra Scampia come simbolo del degrado. Ma questo è un altro discorso, dell’indigenza del giornalismo, ripetitivo, disinformato. Scampia è un’ottima periferia, ben connessa (tangenziale, autostrada, mezzi pubblici, compresa la metro), non un mondo a parte. Dopo la “Gomorra” del libro, una dozzina d’anni fa, che ne fece il centro della malavita, si è voluta animata da un civismo locale forsennato, con un centinaio, forse duecento, associazioni o iniziative sociali locali. Non c’è molto civismo locale nelle città italiane, non nella tradizione inglese o americana, a Scampia c’è. È stata una delle prime periferie di Napoli, città che era tutta centro: cresciuta negli anni Sessanta post-boom, e più dopo il terremoto, a elevata intensità costruttiva, a iniziativa pubblica. Con un intento buono: urbanizzare il sottoproletariato in simbiosi con la piccola borghesia. Con qualche pecca: l’amianto incorporato nelle Vele, le piramidi abitative – ma era un peccato comune. E con distrazioni assurde: ben collegata, la “città” non aveva – e non ha: non ha una banca – praticamente servizi privati. Non c’era nemmeno il tabaccaio, le sigarette si compravano perciò di contrabbando, che a Scampia ha ripreso a fiorire.
A Scampia ci sono le mafie – c’erano. Sì, i Licciardi, i Di Lauro. Ma nessuno purtroppo se ne occupava, prima delle faide. È sempre così al Sud, quindi anche a Scampia. Di Lauro era personaggio noto a Napoli, lo chiamavano “’o milionario”. E fino alla faida, assicura lo storico Isaia Sales, “non ha mai avuto imputazioni legali di nessun tipo”.
Deindustrializzazione
La città ha avuto e ha problemi grossi. Per primo la deindustrializzazione. A Napoli è stata radicale. Pomigliano d’Arco occupava 40 mila metalmeccanici, ora arriva, i giorni giusti, a cinquemila, tra Fiat-Chrysler e Alenia, indotto compreso. Bagnoli è stata chiusa. L’industria conserviera è emigrata.
L’economista Mariano D’Antonio lasciava la città trent’anni fa indignato che si pensasse di farne “un polo di camerieri”. Ma anche questo disegno, se c’è stato, latita. Oltre che le bellezze naturali e la cucina, la città ha un patrimonio culturale – quello che assicura il turismo più ricco – incredibilmente vasto e attraente. Che però è solo testimone dell’incapacità dei sindaci di gestire la deindustrializzazione: la città e dintorni, così adatta ai servizi, è una enorme miniera a cielo aperto  non sfruttata, di bellezze naturali, archeologiche, artistiche, culinarie, musicali, per il tempo libero, etc.. Che però avrebbe bisogno di un po’ di coraggio.

leuzzi@antiit.eu

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