sabato 25 giugno 2016

Il diritto del giudice

La giudice Melitta Cavallo e la Corte di Cassazione hanno adottato la stepchild adoption che il Parlamento aveva bocciato. Non  molti anni dopo la decisione del Parlamento, poche settimane dopo. Quindi non per adattare il diritto alle mutate condizioni socio-conomiche-politiche ma per “libero convincimento” di giudice. Sempre più i giudici usurpano l’attività normativa: bene o male che abbia fato il Parlamento, è ad esso che compete la formulazione delle leggi, almeno in base alla Costituzione.
La giudice Cavallo e i giudici della Cassazione sono di Napoli e questo è un altro strano capitolo del diritto italiano. Tutti i giudici, nei ranghi dirigenti, sono di Napoli o dintorni: la Corte Costituzionale, il Csm, la Cassazione, i Tribunali, le Procure. Napoli dunque si arroga, pur non avendone nessun  titolo specifico, quello di patria del diritto. Ma in senso deteriore.
Viene da Napoli, da Mario Pagano, fine Settecento, il giudizio come “convinzione morale” del giudice. Non basato su prove e verità dei fatti. Il diritto del “libero convincimento del giudice” si vorrebbe filosofico e quasi teologico (Sciascia ci ha scritto sopra pensose pagine, dal “Giorno della civetta” in poi, salvo ripensarci da ultimo in “Porte aperte”), ma è nei fatti l’arbitrio del giudice, e la liberazione dall’obbligo di studiare le carte e entrare nel caso.
A lungo la giustizia a Napoli è stata fatta dagli avvocati, dai “paglietti”. Per questo sono state divisate e adottate procedure non formalistiche, per disinnescare il pagliettismo. Ma la “convinzione del giudice” e la “creazione del diritto” sono della stessa natura: roba avvocatizia. Il legislatore romano, e quello napoleonico, avrebbero da ridire. La giustizia del giudice non è “più” morale, è  arbitrio e neghittosità.

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