Una vecchia storia,
quella dei delatori in quanto pentiti o collaboratori di giustizia. Della procedura
giudiziaria a Napoli, dei Borboni come pure della Repubblica, nella sua breve
vita. Una storia al punto, questa di Perrone, semplice e significativa, del rito abbreviato
(“truglio”) o sommario in presenza di testimoni accusatori, meglio se correi.
Con il caso speciale del processo politico, “per “reità di Stato”, contro
Emanuele De Deo e la Società Patriottica Napoletana nel 1794, e col diritto e
la pratica della Repubblica cinque anni dopo. Filo conduttore il grande giurista
Mario (Francesco Mario o Francesco Maria) Pagano, avvocato e “regio
cattedratico”. Le cui opere, tradotte anche in francese, influenzarono la rivoluzione
del 1789. In dottrina avverso al “correismo”, in pratica poi favorevole, in
quanto presidente della commissione legislativa della Repubblica – della cui
caduta resterà vittima.
Un abbozzo
foucaultiano di storia della giustizia oltremodo attuale, avviato da Perrone a
fine Novecento e rimasto purtroppo senza seguito. Utile, oltre che attendibile,
ma caduto nell’epoca dei denunciatori di massa, pentiti e cronisti giudiziari,
e dei giudici d’assalto. Utile in quanto problematico.
Il sottotitolo è
“Infami, delatori e pentiti nel Regno di Napoli”. Ma anche nella breve
Repubblica Napoletana di fine Settecento. Filo della storia è Mario Pagano “Platone
della Campania” (Dumas), da Cuoco e Croce equiparato a Vico, che “l’indiziaria
pruova” dice “contraria alla ragione”, allora anche “opposta alle leggi”. Ma
poi la fa adottare dalla Repubblica. Con l’aggiunta della censura preventiva.
Pagano è anche
l’autore della teoria del giudizio come “moral certezza” del giudice. In un
“aringo” del 1785 in un processo d’appello aveva ironizzato sul criterio legale
romano-canonico, dell’“aritmetica legale”, appellandosi a “la moral certezza”.
“Sia persuaso il Giudice, e sulle formalità si cali un denso velo”. La
procedura romana escludeva espressamente l’arbitrio del giudice, obbligandolo a
mirare all’accertamento della verità dei fatti, vincolandolo alle prove e a criteri
di giudizio predeterminati.
In questo senso la
legislazione borbonica aveva confermato la procedura penale dieci anni prima
dell’“Aringo”. Salvo, subito dopo, e più tardi nei processi politici, rimangiarsela
col “truglio”. Che non escludeva la prova dei fatti, ma la sovrastava con le
testimonianze e gli accordi, “secondo la convinzione intima della conscienza
de’ giudici”.
Il libero
convincimento del giudice è stato introdotto nella procedura penale dalla
rivoluzione francese, nel 1791. Ma deriva dalla dottrina del Pagano, di cui
l’Assemblea Costituente già al suo esordio a metà 1789 aveva fatto onorevole
menzione. Robespierre e altri giacobini era molto contrari:, “la moral
certezza” bollavano come “arbitrio” e “dispotismo”. Ma il decreto passò e ebbe
fortuna in diritto. Era stato anticipato dalla normativa del “truglio”. E sarà
applicato dal Pagano nella Repubblica Napoletana.
Nico Perrone, Il truglio, Sellerio, remainders, pp.
147 € 4
Nessun commento:
Posta un commento