domenica 5 giugno 2016

La sinfonia del disamore

Un “De Profundis” a leggerlo ora, all’epoca della continenza monogamica, e anzi del bisogno di coppia chiusa, di matrimonio. All’epoca no, gay era il rifiuto della coppia e il sesso “libero” – occasionale, gratuito, anche se a pagamento. White ne fa la celebrazione, in un senso e nell’altro: degli accoppiamenti furiosi a ripetizione, e della morte, che presto interviene in epidemica. È un testo non nuovo, che letto a vent’anni dall’uscita apre più di un dubbio sul “genere”.
È l’ultimo, estesissimo, pezzo della trilogia autobiografica, avviata con “Un giovane americano” e proseguita con “La bella stanza è vuota”. Ma tutta la fiction di White è autobiografica: “Ragazzo di città”, “My lives”, “Hotel de Dream”. E in parte anche il romanzo del debutto, “Forgetting Elena”, e il successivo “Nocturnes for the King of Naples”, non tradotti. Questo è anzi il brogliaccio, più breve, un terzo, della “Sinfonia degli addii”: si muore anche lì, seppure non di Aids, e si fa bohème, lì a Napoli, in Spagna e in una cadente farm americana, come qui a Roma, Parigi, Venezia. E sempre a New York, nel Village più o meno sordido, sui moli, tra i tir. Sempre ugualmente sfrenata, ma sordida. Lo humour in cui White eccelle non cancella il disagio. Si vorrebbe il Frank Harris della gaytudine, White è pur sempre il coautore delle “Gioie dell’amore gay”, manuale pornopratico. Ma non gioioso: ossessivo. Grigio. Sulla linea si vorrebbe di Norman Douglas e poi di Isherwood, ma con gli eccessi e le flagellazioni che poi saranno degli epigoni, Busi in testa. Il vecchio amore senza nome come disamore.
Colto – White ha insegnato Letteratura a Yale e Princeton – e a suo modo sapiente. I suoi personaggi muoiono l’uno dopo l’altro, lasciandolo solo, come succede a Ismaele, il celebre sopravvissuto al naufragio. La “Sinfonia degli addii” è quella di Haydn, in cui gli strumenti a uno a uno si spengono, fino a che due soli violini restano a incoraggiarsi - in White solo uno, l’autore. Avendo scelto però di “non essere uno storico, ma un archeologo dei pettegolezzi”. Lo annota in calce a una scena cui assiste a Princeton, in casa di Nina Berberova: l’arrivo di un pacco dall’Urss, con una lettera di Lily Brik e uno Chanel N.5 in omaggio, costosissimo e forse di contrabbando, in ringraziamento per la lettura delle memorie appena pubblicate a Mosca in cui Berberova difende la memoria di suo marito, il poeta Khodasevic, strenuo critico di Majakovskij. Molti i ritratti e le celebrazioni di defunti in vita. Con apparizioni di Tennessee Williams, Foucault, Burroughs, la pittrice Lee Krasner, che ogni volta s’incontra come “la vedova di Jackson Pollock”, e vari registi di Broadway, probabilmente tutti quelli gay, oltre che di Berberova. E, a chiave, vari personaggi reali: il musicista Virgil Thomson (“Homer”), i poeti Howard Moss (“Tom”) e James “Jimmie” Merrill (“Eddie”, il “poeta milionario”), i critici David Kalstone (“Joshua”) e Max Richards (col suo nome).
Ma alla fine non brillante e anzi sinistro. E non per la cornice dell’Aids. Si muore pochissimo in realtà. È un’autobiografia sessuale compiaciuta ma senza gioia. Ripetitiva. Claustrofobica anzi. È forse diversa la natura della lussuria? Il sesso è per natura inappagato, poiché lo stimolo si autoalimenta – è una addiction. Più nella promiscuità, la cui natura è l’indifferenza , la riproduzione dell’atto quasi in automatico. Qui nella terza fase del ciclo “archeologico del pettegolezzo”: quello glorioso, meglio nella dark room, al buio, o di rapporti con partner invisibili, dietro pareti. “Più ci grattavamo, più sentivamo prurito”, dice White ironico. È un romanzo di morte per questo, non per le morti in sé, irrilevanti. Dopo una rapida metamorfosi: “Non c’è mai stata una comunità in un ciclo così rapido: oppressa negli anni ’50, liberata nei ’60, esaltata nei ’70 e spazzata via negli ‘80”.
Tutto fuori contesto. White”, “comunista”, fa un accenno al Watergate, una riga, e nessuna alla guerra (Vietnam), così drammatica in quegli anni. E monomaniaco. Col “bisogno di centinaia di uomini ogni anno”, e non in senso rabelaisiano, dell’esagerazione. Malgrado “centinaia” di malattie sessuali, in bocca e alle parti intime. Finché, 1981, non insorge “l’immunodeficienza riscontrabile nei gay”. A meno che non ci sia un lato oscuro dell’amore gay, il dominio – sadomaso – incontrollato. White stesso è convinto, anche tardi, anche come coautore di “Le gioie del sesso gay”, che l’atto “fosse un rito freddo e premeditato che prometteva la trascendenza, ma certo non affetto” – per trascendenza intende l’orgasmo. Di Brice, il suo quasi sposo di sei mesi, in memoria del quale decide di scrivere la “Sinfonia”, al modo di Genet quando scrisse “Nostra Signora dei Fiori”, ha “una terribile amnesia” - di fatto ne parla per poche righe, la fine drammatica in Marocco. Fa l’amore pure al telefono, quando usarono le linee chat negli anni 1980 dopo l’Aids. Contro Genet sostiene che  “l’omosessualità esibita perde sapore”, ma è quello che fa. Con alcool sempre e ogni tipo di droghe, anfetamine, popper, erba, acido, pasticche.
Si può dire già scritto in Pasolini, presenza romana e proprio nei suoi luoghi, quelli di dragaggio di Pasolini, che White non menziona nemmeno. Che, è vero, soffriva l’omosessualità. Di cui scriveva compulsivo: celebrava il lutto della felicità, che ogni giorno viveva. Lui ch’era dotato della magia, in ogni creazione e nei gesti – se non è la grazia, che dunque c’è pure nel peccato. Ma col vizio incessante, una sorta di pena originale, di mutilarsi. La parola riducendo così alla tecnica, i segni, i suoni. E l’amore - “I posti\ dove fare l’amore furono centinaia\ e tutti fetidi”. Non per scandalizzare i benpensanti, vittima  dell’“ossessione patetica, che mi è propria”. Contro la quale non c’è rivolta?
Per il resto, si fanno i conti con la madre, come ogni buon gay in analisi, accettata\rifiutata. E con il padre, rifiutato\accettato. Un volumone di sesso incontinente, sotto il velo del lutto per la morte dell’amico, anche con lo scolo ricorrente. Anche quando l’altro ha un nome – l’atto è sempre lo stesso, con lo stampo. Di gelosia nelle forme più spicce (brute non si può dire) del possesso. Come una liberazione, ma in un mondo già tutto gay, monoaurale. Anche se di una vita gay ridotta all’improsatura: chi è “al comando”  - il desiderio è “sempre statico, e intento a immobilizzare l’altra persona”. Nell’indifferenza: il gay si vuole “narcisista e senza relazioni”.
La liberazione, attorno al “famoso conflitto (rivolta) di Stonewall”, è questa: “La lingua era sospetta, la protesta imperativa, la tribù tirannica, l’amore morente”. Il professore c’è.
Edmund White, La sinfonia dell’addio, Baldini & Castoldi, remainders, pp. 566 € 5,60



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