Così vicini, e così
lontani. Dalla primissima guerra di Libia, 1911, all’epilogo per più aspetti tragico
di questi ultimi anni. Con i fanti italiani alla prima pagina che sbarcano a
Tripoli l’11 ottobre 1911 bardati da inverno, proteggendosi dietro cumuli di
sacchi di sabbia, per una guerra di trincea. Fino all’intervento
militare che si voleva qualche mese per liberare la Libia – la Libia, che
misura cinque o sei volte l’Italia?
La guerra stessa del 1911, che si volle di
conquista e quindi una passeggiata in terra
nullius, portata a termine ufficialmente in un anno, durerà invece
venti anni, almeno. Una “conquista” gloriosa peraltro di cui l’Italia si è
dimenticata: il centenario, cinque anni fa, è passato inosservato, se non per osannare
il disastroso, sotto tutti i punti di vista, rovesciamento di Gheddafi. Una
ignoranza di cui facciamo ancora fatica a renderci conto, benché ci sia costata
così tanto – grazie da ultimo al bravissimo Satkozy, che invece, col suo personale
consigliere Lévy, sapeva bene cosa faceva.
L’Italia è
distratta. Il caso è famoso di Ardito Desio, per altri versi geologo e
esploratore di meritata fama, che non trovò in Libia il petrolio, dove è quasi
di superficie, L’Italia in Libia sarà stata il lungomare Italo Balbo, l’unico
ornamento di Tripoli fino a Gheddafi, 1970 e oltre, con la piazza del Duomo e i
portici antipioggia che i coloni emiliani non evitarono di costruirsi, anche se
a Tripoli piove poco. La “tradizione e modernità” di un fotoreportage del 1965
sono ancora quelle del 1939.
L’occupazione della
Libia fu peraltro una mezza catastrofe, per loro e per noi. Una guerra
combattuta contro l’occupante turco riuscì a mobilitare contro l’Italia lo
spento “nazionalismo” arabo, il ribellismo beduino, tribale. L’Italia di
Giolitti vi inventò le deportazioni (almeno cinquemila persone, madri e mogli
comprese, con i figli, furono mandate nelle “isole”, Ustica, Favignana,
Tremiti, Ponza) e i bombardamenti aerei. Quella di Mussolini e Graziani i campi
di concentramento e lo sterminio, per fame e per esecuzioni di massa: trecentomila
morti tra le due guerre, su una popolazione di un milione, un milione e mezzo,
di persone – che se anche fossero trentamila morti non cambierebbe.
Varvelli, esperto
di terrorismo all’Ispi, l’istituto milanese di Politica Internazionale, e
specialista della Libia, si limita a poche didascalie. L’impressione favorendo di
aver tralasciato l’essenziale. Per esempio di Gheddafi, su cui metà delle foto
convergono. Anche qui, che ne sappiamo noi di Gheddafi? Con cui Moro
neghittoso non volle contatti (perché l’America non li voleva), costringendolo
quasi, a dieci mesi dalla presa del potere, alla cacciata degli italiani in
massa – dieci mesi passati nella vana attesa di un cenno, pure tanto
sollecitato, un cenno soltanto, una parola, da Roma. Che Nasser, l’idolo di
Gheddafi in quanto leader del panarabismo, prestò chiamò “il Pazzo”. Che,
fallita l’utopia panaraba, Gheddafi fu finanziatore e fornitore del terrorismo
in tutta Europa, per esempio dell’Ira contro i britannici, e compresi gli
attentati a Fiumicino. Che fece guadagnare all’Italia cifre enormi, molto di
più di quanto l’Italietta vi aveva investito per la “conquista”. Che ha arricchito
tutti i libici, non solo i ricchi e i capitribù, ha creato l’assistenza
sanitaria e le pensioni, e a meno della democrazia aveva messo in piedi, caso raro nel
mondo arabo, un Stato quasi moderno.
Arturo Varvelli, a
cura di, La Libia e l’Italia,
Edizioni del Capricorno-Qn-La Nazione, pp. 141, ill. € 9,90
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