Cominciò Francoforte nel 1968, che per punire
gli studenti in rivolta, sventrò il centro storico, di ville, palazzi e
università, che postò in periferia, e lo riempì di grattacieli di banche – la
città fu distrutta appena ricostruita, ma l’odio dei giovani servì a un cinico
calcolo immobiliare. Seguì l’Olanda, che sempre si uniforma sulla Germania: a
Amsterdam e altrove l’università subito si periferizzò. Ma conservandosi una
sede di rappresentanza in centro città, per dottorati e altre manifestazioni
accademiche, come presenza storica, se non più economica (popolazione studentesca,
immobiliare). Venne poi Parigi, dovendo decentrare – l’niversità essendo ormai
di massa.
In Italia per prima Firenze si privò dell’università
in centro, dei centri di eccellenza universitari, in favore del progetto Novoli-Sai
(assicurazioni): l’istituto “Cesare Alfieri” di Scienze politiche, Architettura,
Lettere. Primo caso dell’immobiliarismo trent’anni fa di stampo Pci. L’università
relegando a un’estrema periferia, in un incrocio autostradale - come molti
altri uffici pubblici. Lo squallore materializzato, senza servizi, senza
accessi, se non con motorizzazione personale, impervia ai fuori sede, della
provincia o di fuori regione senza convivialità o socializzazione possibile.
Ora Milano segue, con la Statale. Sempre per un progetto immobiliare. Ma non
dell’università. Che baratta aree pregiate in centro con l’università a … Rho
(non si dice, si dice “area Expo”, fa più fino)
Ciò che più sorprende è l’arrendevolezza delle
università. Se non è corruzione. Le università sono – sarebbero – e si vogliono
aziende. Ma non sanno calcolare niente, niente patrimonio e niente reddito.
Soprattutto non sanno quanto perdono in queste delocalizzazioni – è possibile?
In valori patrimoniali e reddituali. Di costi insorgenti e entrate ridotte.
Senza residenze per i fuori sede. Senza trasporto pubblico minimamente adeguato.
In zone tristi, per gli studenti e per i docenti. Senza servizi, senza svaghi,
di ore vuote piene di vuoto.
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