giovedì 14 luglio 2016

Il business dell’antidoping

La provetta di Schwazer è stata manomessa? Venendo l’accusa da lui c’è da dubitare. Ma dal suo trainer-manager Donati  no, vero uomo dell’antidoping. Anzi: perché non dovrebbe – non dovrebbe essere stata manomessa? La Iaaf, l’agenzia che governa l’antidoping, è un centro di malaffare noto. E perché i laboratori su cui si poggia dovrebbero essere meglio?
Succede dell’antidoping come di tutte le iniziative a difesa dell’integrità (lealtà, onestà), che diventano comodi ombrelli degli affari, se poco poco non sono divorati dal sacro fuoco. È anche inevitabile: le rivoluzioni sono solo cambiamenti di regime, a meno di un rivolgimento continuo. Ma la questione non è di procedura filosofica: è che l’antidoping è un business, non altro: la Iaaf è business, la Wada è business per definizione, i suoi laboratori collaboratori un business.
La procedura di un prelievo antidoping come quello di Schwazer, in un villaggio remoto del Tirolo,  è costosa, fra gli 8 e i 10 mila euro, fra viaggi, diarie, personale specalizzato, materiali, e spese generaeli (amministrative, tecniche). Se ne spendano tre-quattrocento, o anche meno (un medico locale disoccupato per il prelievo, un invio per posta, al più per corriere, e il business diventa “competitivo”, molto. Tanto più che l’anti lo garantisce da ogni curiosità, del fisco o del pubblico.

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