Vacca, ora a capo
della Fondazione Gramsci, “salva” Marx attraverso Gramsci. Che per la verità
non è marxiano, non nella tipologia della ricerca. A meno che entrambi non
siano recuperati nella personalità. Che è liberale. Non cioè ideologico e
ideologizzante. Del resto, quello che Vacca propone è di recuperare con Marx una
migliore lettura della globalizzazione. Questo è ambizioso, ma di Marx bisogna
riparlare, è vero.
Marx è seppellito
sotto il marxismo-leninismo, settant’anni non sono passati invano. Tutto Marx
vi è seppellito, compresa l’edizione italiana delle opere, che ripete quella
sovietica. Nessuna rilettura dopo la caduta del sovietismo (che si diceva marx-leninismo,
per chi non lo ricordasse), ormai sono quasi trent’anni. Anche se il vero Marx
non c’entrava nulla con l’Urss.
Marx è molte cose. Filosofo,
storico, scrittore, polemista, uomo di partito soprattutto, molto attivo e
fazioso, che ogni avversario, com’è caratteristico della vita dei partiti,
puntava a liquidare. Politicamente era un liberale socialista. Che per distinguersi
elaborò un socialismo “scientifico” al posto di quello “utopistico”, il
comunismo. Ma indagava i fenomeni, economici e politici, compresi
l’imperialismo e lo sfruttamento del lavoro, con animo sgombro.
Rileggendolo
attraverso molti scritti, le corrispondenze giornalistiche, le opere storiche,
le prime opere filosofiche, e in parte lo stesso “Capitale”, sarebbe un ottimo
pensatore libero del mercato. Libero cioè dal pregiudizio mercatista, che tanti
danni ci sta infliggendo, grazie a un’opinione miserabilmente corriva – tanto
più se non assoldata: nell’impresa, che nessuno ha celebrato più di lui,
pulsa la vita.
In un certo senso Vacca ha torto, molto Marx si cita ancora. Ma, è
vero, senza leggerlo. Una colonna emergerebbe – tralasciando la sua attività
politica dopo la delusione del Quarantotto – liberale. Non del tipo romantico,
di quello realista, dopo Machiavelli e Hobbes, che si occupano delle condizioni
reali della libertà.
Marx era e rimase un borghese,
il diavolo ne avrà preso possesso, anche quando dalla rivoluzione passò al
materialismo e al proletariato. Fu
protagonista del Quarantotto, col suo giornale, la “Neue Rheinische Zeitung”,
sostenendo la guerra tedesca contro la Russia, la Danimarca, e i polacchi
austriaci. Compagno
e mallevadore, già autore a ragione celebrato del “Lohengrin”, quel Wagner che
proclamava “il tedesco è conservatore”, e “solo l’assolutismo è”, grazie a Dio,
“tedesco”. Marx nasce romantico, e per
questo, per farsi perdonare, esagererà nella critica: il suo borghese sta tra
il romantico e il filisteo, che è il
borghese non romantico. Poi fu
un emigrato. Arrivò al
socialismo critico non dai bisogni del proletariato, che non conosceva, ma da
se stesso, giovane, tedesco, intellettuale del Marzo ’48, eretico per esigenze
di ruolo, il condottiero che, aperto un varco, ci erige sopra il suo castello,
da hegeliano. E da hegeliano rovesciato il castello lo fa al quadrato. Che non
è apostasia, non c’era il marxismo all’epoca, ma un modo d’essere, non
antipatico.
Marx
sarebbe stato in guerra coi suoi esegeti - li avrebbe spernacchiati, usava
così: lui non ha colpa del chiacchiericcio che lo ha seppellito, parlava e
scriveva diretto. È Cristo, anche se non lo sapeva, con la barba, evangelico –
se era ebreo, s’è convertito: per il dovere del paradiso in terra, della
giustizia. Un Cristo laico, per la fregnaccia del Diamat. La classe resta vaga,
su cui ha scritto migliaia di pagine, ma non sarà una goliardata? Marx non ha
una teoria politica.
Molta
politica del resto è retorica, un bel dire: Marx lo scoprì di Machiavelli, che
riscriveva Sallustio, “La congiura di Catilina”,
o Tacito, che rifece Sallustio.
Si
vuole Marx economista e agitatore e non filosofo. E invece lo è, sotto forma di
Heidegger, il primo marxista: i tedeschi della rivoluzione conservatrice, che
Marx abominavano, se ne sono appropriati i criteri e gli obiettivi, anche se
solo in funzione antiliberale. Marx fu economista fantasioso, essendo
autodidatta, mentre fu politico mediocre - litigioso, invidioso, e inefficace. Marx del
resto è Napoleone, seppure con la ghigliottina di Robespierre. Pensa come Napoleone
più che come Hegel: semplifica la storia perché vuole farsene una. Rilancia,
sul supporto di Hegel e della storia rivelazione, l’unicità della Rivoluzione
francese nel senso della compattezza, e anzi della monoliticità. Che è come la
Rivoluzione si presentò nel mondo, ma questo a opera di Napoleone, della
conquista napoleonica. La Rivoluzione fu episodica, si sa, e frammentata:
mozioni confuse, assemblee vaganti, strane peripezie dei protagonisti, che sono
tanti e nessuno, la violenza della plebe a Parigi, il silenzio del popolo in Francia,
le restaurazioni. Ci furono semmai tante rivoluzioni, insieme e in successione.
Napoleone ne fissò il nome, che non vuole dire nulla.
I
Marx erano, e sono, una famiglia nobile dell’ortodossia ebraica. Nel ’48 Marx
ebbe a compagna di rivoluzione, con Wagner, Malwida von Meysenburg, benché già
matura. Nei gironi di Dante starebbe a uno superiore,
grande la barba, segno di saggezza, e il carico di gloria, ma assiderato nel
cuore e le membra per l’errore di giudizio. Per avere congelato il lavoro, la
più democratica delle passioni. Mentre l’economia che realizza le condizioni da
lui poste per il comunismo, quella yankee,
ne è immune, e anzi vaccinata.
Sarà come dice Berlin, che “Marx ha diviso
l’eredità, il capitale ha lasciato all’Ovest, all’Est il Manifesto”. È vero che
il lavoro è semplice, pochi moduli
ricorrenti, la competizione, la fede, la cura, la stanchezza, più frequente che
non. È la vita al suo minimo, la sopravvivenza trasferita dalla savana all’aria
condizionata, con la busta paga e la pensione, per questo il lavoro non ha
buona fama. Ma è il proprio dell’uomo, un atto di fede, ogni mattina, oggi che
l’economia è monetaria e bisogna fare soldi, e anche prima, ogni mattina
l’applicazione costante a qualcosa di nuovo, sia pure ripetitivo senza residui
come il moto perpetuo, un’eterna pedalata. Si è sempre autocritici, quindi
anche del lavoro. Ma è parte del lavoro.
Marx è simpatico. Benché abbia scelto
Hegel. Non aveva alternativa, l’altra essendo Fichte - cattivo carattere, l’inventore della
nazione, dei primati e dello Stato nazionale chiuso, anzi dello “Stato economico
chiuso”, l’opera che modellò il socialismo e più non si pubblica: la libertà è
la sicurezza fisica e materiale, la concorrenza fa male. Hegel è altra razza.
Marx non parlava con Dio, oppure sì ma non da beghino: beveva, s’infatuava,
s’indebitava. Hegel è un pietista rifatto illuminista. Che incrocio, la ricerca
di Dio, o anima del mondo, calata nella filosofia per despoti.
Se Hegel fosse stato poeta sarebbe
diventato un piccolo Hölderlin, pazzo. Avendo incontrato Napoleone per strada,
ne assunse invece la ragione pensando di domarla. Marx è caduto nella rete, lui
che non aveva anima né corpo metafisico. Era fatale: la filosofia illuminista,
per quanto laica e scientifica, non può non affascinare i duri della storia. Ma
non nutre la rivoluzione - anche in Francia, nutrì Napoleone. Oppure sì, nutre
la rivoluzione ma nel senso del trickstar
beffardo, per frantumarla.
C’era questo antefatto quando lo storia
idealista sancì i primati, confondendo la tradizione e ridicolizzando la
ragione. C’è ancora chi imputa le guerre ai capitalisti avidi di mercati e
materie prime, e le rivoluzioni alla classe operaia, ma per un difetto di vista.
Marx è comunque morto cadendo nel bolscevismo, lui che non s’era mai nascosto
le formidabili capacità mimetiche della borghesia. Marx non
se n’intende, il denaro lo concepì da nobiluomo estenuato, sprezzante - Marx è uno
snob, da vero liberale,
incorreggibile. E c’è questa cosa da rivedere, anche se la storia latita,
gli studi storici: del nazismo che si voleva comunismo, non fosse stato per i
“sottouomini mongolici”, gli slavi, che gli avevano rubato l’idea.
Giuseppe Vacca, Quel che resta di Marx, Salerno, pp. 89
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