Uno scrittore di assoluto
rilievo - “il Dostoevskij del nostro tempo”, lo dice altrove. Finora trascurato perché “scriveva male”, veloce e per un pubblico di
genere. I romanzi mainstream
rifiutati, di qualità o comunque di ambizione letteraria, alla fine saranno otto
– forse undici. Scriveva vorticosamente, quando scrveva. Ma è solido alla rilettura,
e quasi filosofico: il romanziere dell’epoca, degli “anni ruggenti”
postbellici. Il tempo disarticolato è il suo topos. Invece di un futuro ipotetico, un altro passato – un modo originale
di “vedere” la storia. La realtà si sottrae, si trasforma, si maschera –
inafferrabile. Con singolari anticipazioni nei romanzi di tutta le tematiche
commerciali relative oggi alla rete: intrusioni, furto dei dati, affare privacy. Profeta anzi dell’iperrealtà. E
inventore del falso falsificatore. Dick si può anche leggere come un
fenomenologo, il più coerente e approfondito anzi tra i fenomenologi, con i continui
piani sommersi che porta in superficie, dei fenomeni spirituali e anche fisici
– giunse a diagnosticare al figlioletto Christopher un’ernia strozzata che i
medici non vedevano, dai sintomi.
Una vita
problematica. Per scrivere si aiutava con ogni sorta di supporto, dalla
anfetamine “in su”. Al costo di un ricorrente sentimento di inadeguatezza negli
intervalli, e quasi di depressione, E sempre ricaricato a scrivere da donne impietose,
la madre, le tante mogli, relazioni che da monogamo riteneva di dover subito
santificare, e da un paio di amiche determinanti, anche loro conviventi ma senza
rapporti intimi – una lo convertì al cattolicesimo, un’altra alle droghe
pesanti. E “come sempre quando si sentiva colpevole, s’inteneriva sul suo
proprio conto”, si ricaricava e ripartiva. Con attacchi peraltro ricorrenti di paranoia,
in cui tutte le sue debolezze erano colpa di qualcuno, l’Fbi al tempo del
maccarthysmo, la Cia al tempo della guerra fredda, o la Russia, e un paio delle
mogli - una la fece ricoverare in manicomio. O di schizofrenia. Questa anzi
costante, nel sottofondo, nella scissione costante della realtà – informazione,
visione, persone, anche vicine, futuro, presente, passato.
I dati di fatto di
un’esistenza breve e complicata non mancano. La gemellina morta di pochi giorni
per l’inettitudine della madre, la madre solitaria, avventurosa e castratrice,
il padre ridotto alla maschera antigas degli arruolati della prima guerra mondiale
e poi perduto – sarà quello che lo seppellisce. Il maccarthysmo, con l’Fbi alle
calcagna, Nixon e il Watergate, la Cia e i Russi. E l’incredibile era dell’Lsd,
gli anni Sessanta. Dopo un’adolescenza tutta musicale – al punto che, con la
madre, fu in grado di riconoscere qualsiasi brano di musica classica dalle
prime note. A Oakland, già negli anni 1950 “il centro del mondo” delle libertà”,
a partire dall’abbigliamento, e dal fumo. Scrittore per caso, ma subito furioso:
subito all’esordio, prima delle anfetamine, l’Lsd, l’eroina, l’alcol, e altri
corroboranti. Carrère censisce un’ottantina di racconti, sette romanzi di fantascienza,
e almeno undici otto romanzi “seri”, mainstreaeam
- tutti rifiutati (un giorno arrivarono
quindici rifiuti), fino che Dick non ne coltivò più l’ambizione. Sposato già da
ragazzo, “monogamo compulsivo”, lo sarà un’altra mezza dozzina di volte, talvolta
con un figlio. Sopravvissuto a vari suicidi. Finché in ultimo, benché diviso
tra furori e cliniche psichiatriche, diventa amministratore del condominio dove
ha comperato casa.
Questa di Dick è il
genere di biografia che affascina Carrère, narratore dei destini altrui, che
nella bionotizia si dichiara “nipote d’immigrati russi”. Una biografia da
romanzo. Ma questo non basta al biografo, che la deve fare opera sua, con
centinaia di pagine, almeno un paio di mondi immaginari, rileggendo le opere di
Dick. Una sorta di alter-biografia: Carrère sente Dick suo “eguale”, da cultore
del genere, da ragazzo e poi da scrittore, autore di almeno un remake da Mattheson, “La Moustache”. Con
una scrittura mimetica per larghi tratti, che disorienta.
Paranoie
Il biografo non
lesina sule debolezze del personaggio: le paranoie, i deliri, anche
artificiali, le derive violente (contro un paio di mogli, madri peraltro di un
suo figlio) e\o autolesionistiche, e da un certo punto l’invasamento religioso, paolino. Dopo la
conversione Dick visse nella “atmosfera dei libri sacri”, da profeta - Carrère
arriva a farne un novello san Paolo, senza blasfemia, anzi, posto che “Ubik” è
Dio. Ma nella sua redazione-narrazion,e molto più sottilmente che in quella di
Dick, a tratti grottesca, tutto appare più realistico del reale. Compresi i
deliri di varia natura che lo stesso Dick a tratti si riconosceva.
Visse febbrile gli
ultimi otto anni, immerso nella redazione di quello che chiama non una diario
ma una “esegesi” e intitola “Apologia pro vita mea”: ottomila pagine che attendono
di essere messe in chiaro: “Dio, che periodicamente chiama Siva”, sintetizza
Carrère, “gli parlava come aveva parato a Mosè”. Fino al furto, un 7 novembre,
di tutte le sue carte custodite in cassaforte. Di cui la polizia sospettò che
fosse stato l’autore, in amnesia. Uno statuto borderline che sembra un
privilegio, di creatività – l’incidenza della follia nella creatività resta da
decifrare. Carrère si limita a rilevare che dalle sue narrazioni è derivata
tanta filmografia di successo, con un che quindi di inconscio collettivo: “Blade
Runner”, “Minority Report”. “Total Recall” – ma anche “The Truman Show” e “Matrix”. E che la sua irrealtà è diventata la
nostra realtà con l’avvento del virtuale.“L’idea che la rappresentazione della
realtà si sovrapponga alla realtà e la rimpiazzi, la abolisca completamente”,
spiega a Stefano Montefiori su “La Lettura”: “Si è formata una visione dickiana
del mondo, che è una delle griglie di lettura più giuste, pertinenti e
vertiginose che esistano”.
.Una scrittura a
tratti mimetica. Non tanto nelle parafrasi delle narrazioni dickiane, quanto
proprio del dato biografico: tutto di Dick appare più realistico del reale,
come le è nei suoi romanzi, compresi i deliri, i deragliamenti, le paranoie,
anche se insistite. Per addict. Carrère ne è un, che a sedici-diciotto anni
andava in giro, dive, occhialetti tondi sul naso, a ripetere “Dick è il nostro
Dostoevskij, ha capito tutto”.
Soprattutto si deve
a Carrère l’aspetto “paolino”, per quanto bizzarro o blasfemo ciò possa
sembrare, della personalità – dopo la conversione – e l’opera di Dick: “San
Paolo non era così diverso da un agitato geniale come Dick. E Dick era
cosciente di questo: se aveste ascoltato san Paolo all’epoca, diceva, non gli
avreste creduto più di quanto non crediate a me”. Che non vuole dire niente, la
fantascienza non è la rivelazione. Ma Dick ci credeva, e lo fa credere. È un
dato di fatto che molte sue fantasie si sono inverate. E chissà se il tempo
esiste ancora, sommerso com’è dall’istantaneo, come la verità è sommersa
dal falso. Inquietanti, Dick e Carrère.
Se ne esce un po’
ammaccati: 400 pagine di paranoie non sono senza conseguenza, resta arduo
distinguere quelle fondate o con qualche fondamento. L’esercizio è ammirevole, di
bravura. Del resto erano anni diversi, ammirevoli?, dai Beatles a Regan al
potere. Ma anche per gli amatori, una metà delle pagine non sarebbe stata
meglio?
Emmanuel Carrère, Io sono vivo, voi siete morti, Adelphi,
pp. 351 € 19
Nessun commento:
Posta un commento