giovedì 7 luglio 2016

Il profeta dell’irrealtà reale

Uno scrittore di assoluto rilievo -  “il Dostoevskij del nostro tempo”, lo dice altrove. Finora trascurato perché “scriveva male”, veloce e per un pubblico di genere. I romanzi mainstream rifiutati, di qualità o comunque di ambizione letteraria, alla fine saranno otto – forse undici. Scriveva vorticosamente, quando scrveva. Ma è solido alla rilettura, e quasi filosofico: il romanziere dell’epoca, degli “anni ruggenti” postbellici. Il tempo disarticolato è il suo topos. Invece di un futuro ipotetico, un altro passato – un modo originale di “vedere” la storia. La realtà si sottrae, si trasforma, si maschera – inafferrabile. Con singolari anticipazioni nei romanzi di tutta le tematiche commerciali relative oggi alla rete: intrusioni, furto dei dati, affare privacy. Profeta anzi dell’iperrealtà. E inventore del falso falsificatore. Dick si può anche leggere come un fenomenologo, il più coerente e approfondito anzi tra i fenomenologi, con i continui piani sommersi che porta in superficie, dei fenomeni spirituali e anche fisici – giunse a diagnosticare al figlioletto Christopher un’ernia strozzata che i medici non vedevano, dai sintomi.
Una vita problematica. Per scrivere si aiutava con ogni sorta di supporto, dalla anfetamine “in su”. Al costo di un ricorrente sentimento di inadeguatezza negli intervalli, e quasi di depressione, E sempre ricaricato a scrivere da donne impietose, la madre, le tante mogli, relazioni che da monogamo riteneva di dover subito santificare, e da un paio di amiche determinanti, anche loro conviventi ma senza rapporti intimi – una lo convertì al cattolicesimo, un’altra alle droghe pesanti. E “come sempre quando si sentiva colpevole, s’inteneriva sul suo proprio conto”, si ricaricava e ripartiva. Con attacchi peraltro ricorrenti di paranoia, in cui tutte le sue debolezze erano colpa di qualcuno, l’Fbi al tempo del maccarthysmo, la Cia al tempo della guerra fredda, o la Russia, e un paio delle mogli - una la fece ricoverare in manicomio. O di schizofrenia. Questa anzi costante, nel sottofondo, nella scissione costante della realtà – informazione, visione, persone, anche vicine, futuro, presente, passato.
I dati di fatto di un’esistenza breve e complicata non mancano. La gemellina morta di pochi giorni per l’inettitudine della madre, la madre solitaria, avventurosa e castratrice, il padre ridotto alla maschera antigas degli arruolati della prima guerra mondiale e poi perduto – sarà quello che lo seppellisce. Il maccarthysmo, con l’Fbi alle calcagna, Nixon e il Watergate, la Cia e i Russi. E l’incredibile era dell’Lsd, gli anni Sessanta. Dopo un’adolescenza tutta musicale – al punto che, con la madre, fu in grado di riconoscere qualsiasi brano di musica classica dalle prime note. A Oakland, già negli anni 1950 “il centro del mondo” delle libertà”, a partire dall’abbigliamento, e dal fumo. Scrittore per caso, ma subito furioso: subito all’esordio, prima delle anfetamine, l’Lsd, l’eroina, l’alcol, e altri corroboranti. Carrère censisce un’ottantina di racconti, sette romanzi di fantascienza, e almeno undici otto romanzi “seri”, mainstreaeam  - tutti rifiutati (un giorno arrivarono quindici rifiuti), fino che Dick non ne coltivò più l’ambizione. Sposato già da ragazzo, “monogamo compulsivo”, lo sarà un’altra mezza dozzina di volte, talvolta con un figlio. Sopravvissuto a vari suicidi. Finché in ultimo, benché diviso tra furori e cliniche psichiatriche, diventa amministratore del condominio dove ha comperato casa.
Questa di Dick è il genere di biografia che affascina Carrère, narratore dei destini altrui, che nella bionotizia si dichiara “nipote d’immigrati russi”. Una biografia da romanzo. Ma questo non basta al biografo, che la deve fare opera sua, con centinaia di pagine, almeno un paio di mondi immaginari, rileggendo le opere di Dick. Una sorta di alter-biografia: Carrère sente Dick suo “eguale”, da cultore del genere, da ragazzo e poi da scrittore, autore di almeno un remake da Mattheson, “La Moustache”. Con una scrittura mimetica per larghi tratti, che disorienta.
Paranoie
Il biografo non lesina sule debolezze del personaggio: le paranoie, i deliri, anche artificiali, le derive violente (contro un paio di mogli, madri peraltro di un suo figlio) e\o autolesionistiche, e da un certo punto  l’invasamento religioso, paolino. Dopo la conversione Dick visse nella “atmosfera dei libri sacri”, da profeta - Carrère arriva a farne un novello san Paolo, senza blasfemia, anzi, posto che “Ubik” è Dio. Ma nella sua redazione-narrazion,e molto più sottilmente che in quella di Dick, a tratti grottesca, tutto appare più realistico del reale. Compresi i deliri di varia natura che lo stesso Dick a tratti si riconosceva.
Visse febbrile gli ultimi otto anni, immerso nella redazione di quello che chiama non una diario ma una “esegesi” e intitola “Apologia pro vita mea”: ottomila pagine che attendono di essere messe in chiaro: “Dio, che periodicamente chiama Siva”, sintetizza Carrère, “gli parlava come aveva parato a Mosè”. Fino al furto, un 7 novembre, di tutte le sue carte custodite in cassaforte. Di cui la polizia sospettò che fosse stato l’autore, in amnesia. Uno statuto borderline che sembra un privilegio, di creatività – l’incidenza della follia nella creatività resta da decifrare. Carrère si limita a rilevare che dalle sue narrazioni è derivata tanta filmografia di successo, con un che quindi di inconscio collettivo: “Blade Runner”, “Minority Report”. “Total Recall” – ma anche “The Truman Show” e  “Matrix”. E che la sua irrealtà è diventata la nostra realtà con l’avvento del virtuale.“L’idea che la rappresentazione della realtà si sovrapponga alla realtà e la rimpiazzi, la abolisca completamente”, spiega a Stefano Montefiori su “La Lettura”: “Si è formata una visione dickiana del mondo, che è una delle griglie di lettura più giuste, pertinenti e vertiginose che esistano”.
.Una scrittura a tratti mimetica. Non tanto nelle parafrasi delle narrazioni dickiane, quanto proprio del dato biografico: tutto di Dick appare più realistico del reale, come le è nei suoi romanzi, compresi i deliri, i deragliamenti, le paranoie, anche se insistite. Per addict. Carrère ne è un, che a sedici-diciotto anni andava in giro, dive, occhialetti tondi sul naso, a ripetere “Dick è il nostro Dostoevskij, ha capito tutto”.
Soprattutto si deve a Carrère l’aspetto “paolino”, per quanto bizzarro o blasfemo ciò possa sembrare, della personalità – dopo la conversione – e l’opera di Dick: “San Paolo non era così diverso da un agitato geniale come Dick. E Dick era cosciente di questo: se aveste ascoltato san Paolo all’epoca, diceva, non gli avreste creduto più di quanto non crediate a me”. Che non vuole dire niente, la fantascienza non è la rivelazione. Ma Dick ci credeva, e lo fa credere. È un dato di fatto che molte sue fantasie si sono inverate. E chissà se il tempo esiste ancora, sommerso com’è dall’istantaneo, come la verità è sommersa dal  falso. Inquietanti, Dick e Carrère.
Se ne esce un po’ ammaccati: 400 pagine di paranoie non sono senza conseguenza, resta arduo distinguere quelle fondate o con qualche fondamento. L’esercizio è ammirevole, di bravura. Del resto erano anni diversi, ammirevoli?, dai Beatles a Regan al potere. Ma anche per gli amatori, una metà delle pagine non sarebbe stata meglio?
Emmanuel Carrère, Io sono vivo, voi siete morti, Adelphi, pp. 351 € 19

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